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Il Mio dono
(20/02/2013)

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Era sera: Una sera d'inverno che nel suo stendersi freddo, cupo, rotto solo dal biancore denso di lanugine della nebbia, appariva uguale alle mille e mille altre che nel corso dei secoli e delle stagioni alternantesi si sono avvicendate per questa nostra grande e pur finitissima terra.

Ma nel simbolo, nel simbolo che l'idea pensante dell'uomo crea per esulare dalla sua miseria, quella sera d'inverno non era una sera uguale alle altre.

Era una sera speciale, una sera di fede, una sera di festa, una sera di aspettazione.

Era la vigilia di Natale!

Ed in quella vigilia io camminavo col cuore leggero e sereno, fatto di nuovo bimbo dal cuore in cui si rinnovellavano i primi sogni d'infanzia vissuti d'innanzi al miracolo del canuto e buon papa Natale.

I ricordi di allora danzavano vivi e limpidi nella mia mente.

Io camminavo e non pensavo: ascoltavo solo.

Ascoltavo attento le mille cose che il passato mi mandava al cuore, mi sussurrava dentro, piano, piano per rendermi felice.

Ed io ero contento: di quella contentezza alata e un po' triste, sì un po' triste, ma di una tristezza che non fa male.

Le luci effimere della città brillavano intorno a me, nelle vetrine, lungo la strada, alte nei lampioni. Io le vedevo e non le riconoscevo.

Mi erano lontani quei guizzi innaturali, lontani e come morti. Avevo nel cuore altra luce.

Forse quella luce stessa che doveva circondare la grotta di Betlemme dove il Dio si riconciliava con l'uomo.

Camminavo ed ero contento.

La gente, gli altri, si muovevano in fretta ridendo, correndo, animati da un senso gioioso di vita.

Io andavo piano senza fretta e c'era in me come il bisogno inconscio e pur sensibile di prolungare al cuore la carezza dolce del ricordo in cui si cullava la mia serenità, dono alla mia anima della vigilia di Natale.

Svoltai l'angolo di una strada, non ricordo quasi più quale e vidi addossata al muro una figura amica che offriva, timida ed impacciata, al passante frettoloso, i suoi giocattoli e la sua tristezza.

Egli non mi vide subito ed io ebbi tempo di riconoscerlo.

Mi salì il suo nome alle labbra e lo rividi al suo banco, là in prima fila, sempre attento, sempre chiuso nel suo liso vestito scuro su cui spesso s'appuntava l'ironia maldestra di qualche cuore indurito.

Caro e buon Silvestri! Ecco la mìa serena allegrezza svanire, ecco il dolce flusso del passato che mi blandiva il cuore, arrestarsi d'innanzi ad una realtà del presente.

Ecco una vita che nella vigilia di Natale scaccia il mio sogno! Volli allontanarmi, volli non farmi riconoscere, volli risparmiargli un dolore.

Feci per voltarmi ma in quel mentre, chiamato forse dal mio pensare insistente anche lui si voltò!

Mi vide, e il guizzo veloce di una tristezza più forte e più intensa che balenò nella sua pupilla mi disse che mi aveva riconosciuto.

Poi, mi salutò piano timido ed incerto e parve quasi chiedere scusa del suo saluto.

Allora qualcosa di più alto si agitò dentro di me e mi guidò.

Gli fui accanto, l'abbracciai e mentre l'abbracciavo sentii cadere a terra un piccolo giocattolo di legno. Ma egli non ci badò.

Comprese e mi sorrise e nel sorriso era la sua anima triste che mormorava grazie.

Io lo intesi e mentre piano andavo lontano da lui seppi, perché una voce dolce me lo sussurrò, che avevo fatto il mio dono di Natale.

E fui nuovamente felice!

 

 

Guido Nosotti

 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
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