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Le Avventure di Alfredino detto Menelik
(20/01/2011)

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Prefazione

Menelik, così mi chiamavano da piccolo, ma il mio vero nome è Alfredino. Questo soprannome me lo propinò il mio papà quando ero bambino, negli anni quaranta dello scorso secolo.

Dopo tanti anni, ancora conservo nell’archivio della mia memoria il tono della voce che usava mio padre per chiamarmi – Menelik! - che dipendeva dal mio comportamento.

Sinceramente, non mi entusiasmava più di tanto, però con il passare del tempo mi ci abituai e divenne un fatto normale. Poi con gli anni seppi che era il nome del figlio di re Salomone e della regina di Saba, e che significava “re di amicizia”, cosa che mi rese felice.

In quegli anni così belli e lontani, la vita fu meravigliosa, semplice e naturale, piena di gioia di vivere, in un completo stato di grazia in quel luogo della campagna argentina che segnò positivamente tutta la mia esistenza.

I miei genitori erano italiano e lì in Argentina venivano chiamati gringos o tanos, però questo fatto non ci infastidiva più di tanto. Ricordo che la mia famiglia era molto apprezzata e stimata da tutti.

Oggi abito a Roma, dove tanti anni addietro piantai profondamente le radici, e poiché il tempo è passato e il ricordo di quegli anni meravigliosi è ancora presente, voglio semplicemente far partecipi, tutti coloro che vorranno leggermi, di un tempo dove il “vizio” più grande era quello di divertirsi come bambini.

Buona lettura!


Capitolo Primo

L’Ambiente

Il luogo dove ero nato si trova in piena campagna. Le case erano soltanto una manciata e si trovavano tutte intorno alla stazione della ferrovia.

La mia casetta si trovava proprio in uno dei crocevia che venivano chiamati caminos. Erano in terra battuta segnate dalle ruote dei carri e dagli zoccoli dei cavalli, i quali portavano nei depositi della stazione il prodotto del raccolto.

Molti si fermavano da noi per la posta, e soprattutto facevano sosta al boliche, che si incontrava dal lato opposto della strada, un luogo in cui i lavoratori detti peones e i gauchos a cavallo si toglievano la polvere dalla gola ingollando vino, birra o ginebra.

Macchine e camion erano ancora una rarità e quelle che c’erano si fermavano per fare il pieno, perché proprio davanti al boliche  si trovava l’unico distributore di benzina della zona.

Mio padre mi diceva sempre di portare rispetto a quella gente, perché alcuni erano molto suscettibili e mi metteva in guardia, visto che insieme a mio fratello maggiore gestiva l’ufficio postale e contemporaneamente una pelucheria – barberia e quindi erano tutti clienti e amici. Vendevano anche prodotti di profumeria, tabacchi e tutto il necessario per gli scolari, giacché la piccola scuola si trovava a pochi passi da lì.

Così in questo piccolo villaggio la vita era molto movimentata ed era difficile annoiarsi, soprattutto nei giorni festivi, perché sin dal mattino presto arrivavano alla spicciolata i gauchos  a cavallo vestiti con gli indumenti tradizionali: cappello con tesa larga sulla  testa per proteggersi dal sole, fazzoletto al collo, camicia e gilè, ampi pantaloni infilati negli stivali chiamati bombachas, una lunga fascia nera attorno alla vita, con sopra un ampio cinturone di pelle pieno di antiche monete d’argento attaccate attorno che veniva chiamato rastra.

Poi, infilato di traverso dietro il cinturone, un lungo coltello chiamato daga o facón e, soltanto alcuni di quelli che potevano, un revolver; tutti però possedevano un rebenque, una sorta di frusta per il cavallo utilizzata a volte anche per la difesa personale.

Così pian piano e alla spicciolata arrivavano i gauchos nel boliche, dove seduti attorno ad un tavolo giocavano a carte.

Il gioco si chiamava truco e generalmente chi perdeva pagava da bere o da mangiare. Poi fuori del salone si giocava a bocce all’ombra di grandi alberi.

Mentre c’era sempre qualcuno che faceva la carne alla brace che lì si chiama asado, salsicce e morsillas, chinchulines che erano le interiora del manzo e del vitello.

C’erano diversi tipi di pane, ma generalmente si consumavano “gallette di campo” buonissime e croccanti. In quanto a salumi quello che più si gustava erano la mortadella e il salame, poi c’era la lonza e un altro che veniva chiamato matambre, di cui ancora ricordo il sapore; una delizia per il palato.

In questo ambiente così vario, talvolta per qualche disaccordo, si arrivava ad una scazzottata che non durava molto, vista la presenza del vigilante, il poliziotto locale garante della legge, che indossava sempre la divisa, uno spadone al fianco destro, un revolver a tamburo al sinistro e l’immancabile rebenque nelle mani.

Soltanto con la sua presenza incuteva timore e rispetto; in alternativa, si finiva al calabozo a pane e acqua e a volte erano dolori!

Ogni tanto nel club si organizzavano dei balli popolari, sotto un immenso tendone, partite di calcio e corse di cavalli.

Più o meno questo era l’ambiente in cui sono venuto al mondo e cresciuto fino ai miei nove anni d’età.

Poi con tutta la famiglia ci trasferimmo nella periferia di Buenos Aires, in un posto chiamato El Palomar.

Successivamente mi mandarono a studiare con i preti salesiani nella provincia di Cordoba, a più di settecento chilometri da casa, una distanza che per quei tempi era davvero molta.

Figuratevi che feci le mie prime vacanze a casa dopo due anni e mezzo.

Le storie che racconterò sono realmente accadute e le voglio narrare con un linguaggio semplice, per risvegliare le medesime emozioni nei lettori e soprattutto per non dimenticare cosa significhi essere felice, senza giocattoli, senza tv, senza computer e senza energia elettrica. Unica compagna di giochi, la Natura!

A quei tempi il mio papà, come ogni papà, mi ricordava la pericolosità di alcuni luoghi e mi metteva in guardia dall’andare senza, essere accompagnato, da qualcuno più grande.

Pur se per rispetto rispondevo – Si papà -, me la ridevo a denti stretti, perché ero stanco di andare proprio in quei luoghi che lui mi vietava!

Questi erano i posti: le rovine del vecchio fortino, resti della guerra di frontiera con gli indiani di quelle regioni; la laguna, dove si andava a caccia o a pesca; il monte, così si chiamava il bosco, poiché c’era il pericolo, anche se remoto, di incontrare un puma, un cinghiale o un lupo. Per fortuna noi non li trovavamo mai, forse vedendoci erano loro ad avere paura.

Ad essere sincero non ero quasi mai da solo, perché in realtà avevo un compagno inseparabile, il mio cane Macchia, un bastardino bianco e nero, o nero con macchie bianche: non lo seppi mai.

L’altro era una lei, che chiamerò Aurora, una ragazzina di qualche anno meno di me; come pesti, però, eravamo alla pari: una ne pensavamo e mille ne facevamo, poi c’erano Oscar, il figlio del vigile, Marta, più grande di me, con degli occhi azzurri bellissimi, Carletto e le mie due sorelle.

Aurora, dai capelli neri e gli occhi verdi e io, sempre con un berretto in testa, ci eravamo giurati amore eterno, poiché da grandi saremmo diventati marito e moglie; neppure per sogno: quando feci nove anni ci separammo e la nostra promessa finì rumorosamente e molto bagnata.

Comunque eravamo inseparabili. Ci capivamo al volo anche senza parlare e la stessa cosa accadeva con Macchia. Condividevamo ogni cosa, buona o cattiva, e non passava settimana senza qualche tirata d’orecchi o un ceffone ben meritato.

Molto spesso, dopo aver combinato qualche guaio, il mio papà ci correva dietro e noi come scimmie salivamo su un grande albero, arrampicandoci fino agli ultimi rami e restavamo appollaiati fino a quando le acque non si fossero calmate. Allora la mamma faceva la spia invitandoci a scendere e ci offriva dolcetti fritti e una tazza di mate con latte e tutto finiva lì.

A quella età era naturale che la nostra curiosità prevalesse sulla paura e forse l’incoscienza della giovinezza era più forte.

E poi c’era Macchia, che sembrava una sentinella che davanti al pericolo lanciava l’allarme, e noi giù, via di corsa, fino al rifugio segreto; e lì, nel silenzio, sentivamo soltanto i nostri cuori battere all’impazzata.

Poi mandavamo Macchia a perlustrare i dintorni e lui ci chiamava quando ormai era tutto tranquillo.

Pure se piccoli eravamo liberi come il vento, e la natura stessa ci faceva da maestra. Ogni cosa, ogni evento, dal succedersi dei giorni, la notte stellata, la pioggia, il vento, gli uragani, gli animali, tutti ci insegnavano qualche lezione. Una volta cresciuti, quelle esperienze divennero conoscenza, forgiando il nostro carattere.

In quegli anni il divertimento più comune era quello di giocare certi tiri ai più grandi e quando ottenevamo l’effetto voluto, ci sbudellavamo dalle risate, fino alle lacrime.

 

Capitolo Secondo

Il fantasma del barbone

Questo scherzo non fu mai scoperto da nessuno e divenne una storia vera che incuteva paura, tranne che a noi che sapevamo la verità, essendone stati gli ideatori, gli attori e gli spettatori che se la ridevano. Figuratevi che ancora oggi, dopo tantissimi anni, il ricordo di quanto è accaduto allora mi provoca ilarità, così come tutte le altre storie più buffe.

Le strade che passavano incrociandosi vicino alla nostra casa erano ampie e di terra battuta, e per me infinite, senza un inizio né una fine.

Lì si chiamavano camini reali e parallele ad una di esse correvano i binari della ferrovia a vapore. Anche queste rotaie si perdevano in un punto nell’orizzonte e fra queste e il camino c’erano i pali del telegrafo, tutte e tre come per tenersi compagnia fino a scomparire da entrambi i lati.

I giorni festivi c’era un bel via vai di gauchos, vaccai, peones che a cavallo o in sulky arrivavano alla spicciolata.

Rimanevano fino a tarda sera e quando rientravano verso le loro fattorie erano ubriachi fradici e in quelle condizioni erano gli stessi cavalli che, conoscendo la strada di casa, li riportavano verso le loro dimore.

Fatto positivo per noi, perché nel buio e in quelle condizioni era più facile attuare il nostro scherzo.

Il luogo che avevamo scelto era un punto al margine della strada dove c’era il filo spinato che separava la ferrovia dalla strada.

Proprio in quel luogo tanti anni addietro il poliziotto locale, un po’ troppo zelante ed eccedendo nei suoi poteri, uccise con una revolverata un povero ed innocuo barbone.

La gente del luogo, mossa da un sentimento di misericordia e pietà, piantò una bella croce di ferro dipinta di bianco, a memoria, proprio lì.

Ed era un fatto del tutto naturale che tutti coloro che vi passavano davanti si facessero il segno della croce, forse più per paura che per fede.

Vedere quei rudi cavalieri segnarsi o scoprirsi la testa faceva tenerezza.

Non ricordo con esattezza il giorno preciso, penso che fosse un dì di festa; e noi tre, io, Macchia ed Aurora, aiutati in quella occasione dalle mie sorelle - Carmen, di due anni più di me e Gabriella, di quattro – entriamo nel ricordo.

Aspettammo che il sole calasse. Il boliche era pieno di gente. Alla sbarra c’erano tantissimi cavalli legati, sulky e carri e il momento sembrava ideale per il nostro scopo.

Non molto lontano dalla croce bianca e nascosti dietro un cespuglio accendemmo un fuoco. Preparammo diversi torsoli di mais, le più lunghe che trovammo e li poggiammo con la punta sul fuoco, per bruciarli solamente da un lato.

Ci dipingemmo il volto con del carbone, calammo sulla testa un berretto nero e ci infilammo due torsoli con la punta accesa sopra le orecchie e sotto il berretto; una terza in bocca, fra i denti e un’altra per ciascuna mano.

Il buio era totale, la luna non c’era e le uniche luci che si vedevano erano le punte accese delle torsoli, che in quella tenebra sembravano gli occhi di qualche animale notturno o fuochi fatui che danzavano e si muovevano attorno al luogo dove il povero barbone era morto ammazzato.

Vedevamo le sagome di quei fieri cavalieri fermarsi di colpo, girare il cavallo e partire a razzo, dopo aver visto quegli occhi di fuoco minacciosi, mentre Macchia ululava come un disperato, e tutti i cani nelle vicinanze rispondevano echeggiando, creando un sottofondo da brivido.

Era molto probabile che quelle luci e quegli ululati evocassero immagini di spettri e fantasmi nella mente semplice di quelle persone, mentre noi ci sbellicavamo dalle risate!

La cosa bella erano i giorni seguenti, quando distrattamente ci avvicinavamo ai tavoli per origliare ed ascoltare i diversi commenti sull’accaduto.

Uno disse che gli avevano riferito di un uomo che aveva assistito ad una danza di spettri.

Un altro sostenne che gli era apparso il fantasma del morto.

Un altro ancora che si trattava di diavoli, poi altri, e ancora altri mille racconti diversi, fino a che qualcuno non insinuò che fosse il caso di riferire tutto al prete per fargli celebrare una messa in suffragio dell’anima di quel poveretto…

Con il passare del tempo iniziava a correre voce che, nelle notti senza luna, lo spirito dannato di quel disgraziato morto ammazzato tornasse fra i vivi per chiedere giustizia.

Mentre i gauchos solitari e superstiziosi evitavano le ore buie o con una scusa qualunque rientravano in gruppo e al galoppo segnandosi quando passavano davanti alla croce bianca e con un brivido recitavano _ Ave Maria purissima _ mentre gli altri compagni rispondevano _ Sin pecado concebida… _

 

-Continua nel prossimo numero-

 
 
di Alfredo Cellini Lupetto

 

 
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