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Soffrire - Offrire
(20/02/2008)

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Ho voluto soffermarmi sul significato di queste due parole, per tentare di capire se l’una sia la negazione dell’altra, quindi la fine di qualsiasi afflizione.
In particolare, offrire senza avere un riscontro può essere la fine della sofferenza?

Sembra comunque che la via della realizzazione, quindi analogamente essere arrivati all’amore disinteressato (offrirsi), passi per la sofferenza.

L'offerta sacrificale

La sofferenza implica sempre un sacrificio, una separazione da qualcosa o qualcuno che comunque produce la mancanza di un elemento, come può esserlo appunto una cosa materiale, un affetto o una persona che prima c’erano e ora non ci sono più.

Veramente l’essere umano deve concepire la causa delle sue sofferenze come l’annullamento di qualcosa, o invece considerare che la sua sofferenza è dovuta all’attaccamento e al piacere del possesso?

Osserviamo la natura; in essa ogni cosa si trasforma continuamente  a volte in modo visibile, a volte no; così è anche nell’uomo.

In questo momento, mentre scrivo, innumerevoli trasformazioni, sono avvenute nel mio corpo; milioni di cellule sono morte e se ne sono generate di nuove, il sangue si sarà rinnovato più volte e così via.

Quanta consapevolezza abbiamo di tutto questo? Dovremmo forse soffrire perché le cose mutano continuamente e non rimangono mai le stesse?

E’ il senso del possesso che distorce la nostra mente, perché esso è esattamente l’opposto che l’offrire.

Se esaminiamo l’etimo delle parole soffrire e offrire esso evidenzia che la loro radice si trova nel vocabolo “portare”; tuttavia il portare di soffrire è un so-portare, cioè un fardello sulle spalle che allegoricamente ci tiene chini e rallenta notevolmente la nostra ascesa verso uno stato di coscienza superiore.

Il "soffrire" nel "portare" sulle spalle (sopportare), nell'icona della passione di Gesù sul Calvario, trasformata nell'"offrire" diventarà "essere" nella sostanza Cristica.

Il portare della parola offrire, invece  è un portare per cedere, per donare; è perciò un carico che non rimane avvinghiato a noi come un parassita, ma altresì si cede.
La qualità di questo carico dipende da chi lo elargisce, ovviamente, ecco perché più la donazione sarà disinteressata, tanto più la vibrazione di ciò che si è ceduto sarà elevata.

Possiamo quindi dire che la sofferenza è la espiazione del possedere, mentre l’offrire è il suo esatto contrario.

Possedere, però non ha sempre la stessa valenza dell’avere, soprattutto se questo ultimo è il premio derivato da un lungo lavoro di trasmutazione su se stessi.
In sostanza avere acquisito delle doti, perché sono il risultato della volontà di essere quella stessa qualità cui si aspira, implica la nascita di una realizzazione.

Il possedere e l’avere si trasformano in essere.

Quando si arriva ad “essere”, diventa quasi un’esigenza restituire i frutti che abbiamo fatto maturare; quando questo accade, ciò che ne deriva è da una parte la soddisfazione del lavoro compiuto e dall’altra soprattutto, si sperimenta la più alta esperienza del “distacco” possibile, su questo piano.

La trasmutazione cristica del "soffrire" in "offrire" da un quadro di Salvator Dalì.

L’iniziato può tentare di raggiungere questo livello di amore incondizionato, attraverso un lungo lavoro di affinamento del proprio essere, nel quale deve imparare a far fluire, attraverso se stesso, ogni cosa, fissando solo ciò che può generare in lui un aumento della frequenza vibratoria delle sue cellule. Praticamente egli deve essere il distillatore della propria esistenza.

Sicuramente nessuno nasce imparato, come si suol dire, per cui prima di sentire il richiamo di una conoscenza più profonda e allo stesso tempo più sottile della vita, ognuno attraversa parecchie esperienze, in particolar modo per quanto riguarda i rapporti con le persone che troviamo sul nostro cammino e più in generale con la società.

Nel marasma energetico che viviamo in questi anni, ciò che si avverte è un malcontento di sottofondo, che emerge però come un annichilimento dell’essere, e questo produce una mancanza di reazione agli eventi, anche quelli apparentemente più insignificanti della quotidianità.

Dove ritrovare la causa di questo sonnambulismo che in larga parte si è impossessato delle persone?

Credo che il motivo sia da attribuirsi a quell’atteggiamento di vampirismo energetico che caratterizza “l’uomo civile” di oggi e il cui movente è da riscontrarsi nello spasmodico bisogno del possesso.

Al di là di quello riferito ai beni materiali, che è il più palese, esiste il possesso energetico che riguarda i rapporti interpersonali: genitori-figli, amici, fratelli, ecc.
Quest’ultimo è meno evidente e nella maggior parte dei casi si verifica in modo inconsapevole, ma è anche il più pericoloso, perché costringe e incatena la nostra esistenza ad una visione limitatissima della vita.

Il tormento dell'anima

Ciò che aleggia nell’aria è un senso di torpore malinconico dal quale è sempre più difficile svincolarsi, ma non capiamo che il narcotico lo procuriamo noi stessi, quando impediamo il naturale fluire della libertà e del diritto di ognuno di fare esperienze; è come se mettessimo continuamente dei paletti al principio della Creazione che è Vita Pura.

Perciò se essa non scorre liberamente non si crea l’attrito giusto con la cosa creata, per cui il calore che si deve sprigionare dal contatto e che deve alimentare questo principio, devia dal suo intento, ed invece di creare, distrugge.

Concludendo, vorrei dire che se un risveglio della coscienza deve nascere da questo apparente stato di caos, abbiamo il dovere di rivedere il nostro rapporto con lo svolgersi dell’esistenza che non può più in alcun modo essere costretto da un metodo avido del suo controllo.

Se non vogliamo soffrire, non dobbiamo ostacolare la nostra libertà, ma conquistare il “giusto distacco”; non possiamo più permetterci di voler ottenere dei risultati limitando la libertà altrui, perché così facendo automaticamente, ostacoliamo la nostra.

                                     

Simeon

 

 

 
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