L’amore fra due amanti nel Cantico dei Cantici, assurge alle più alte vette dell’estasi perché trascende qualsiasi riferimento all’istintuale passione del contatto carnale.
Pur se ovviamente vi allude, ogni atto così compiuto, ogni garbato riferimento alle reciproche virtuose bellezze degli innamorati, superano il limite dei corpi che si vedono così immersi in tutto ciò che è stato creato.
L’amore diviene il veicolo che unisce uomo e natura espresso con una liricità di versi che esalta questo fantastico connubio, finalmente ritrovato, fra creato e creatura.
In questa sinergica relazione, si ricerca sempre la qualità fino a raggiungere quasi la rarità, espressa ad esempio nel giglio che spicca fra le spine, o il melo tra gli alberi del bosco del cui frutto poi nutrirsi.
L’opera è la poesia dell’anima gemella alfine trovata che analogamente rappresenta la propria anima, cioè la propria interiorità.
Questa non può essere svelata se non si è animati da principi che esaltino le virtù piuttosto che i vizi o, ancor meglio, che trasmutino la natura bassa di questi ultimi.
Il processo si realizza metodicamente e in sintonia con i ritmi delle stagioni, in particolar modo col finire dell’inverno, quando la natura si risveglia ad una nuova iniziazione.
Come recitano i versi, infatti: “Ecco che il tempo delle gran piogge è passato...i fiori si veggono nella terra e il tempo del cantare è giunto”.
Ogni cosa si risveglia e riprende vita,persino la “colomba” rimasta a ripararsi fra gli anfratti delle rocce, spicca il suo volo verso stati più elevati di coscienza.
La laboriosa ricerca dell’amato, induce l’amata o anima, a cercarlo nel proprio letto di notte; è infatti in questo contesto di silenzio, di macerazione e maturazione, che l’energia animica vene stimolata nella ricerca della sua controparte “vagando per la città: “Ora mi leverò e andrò attorno per la città, per le strade e per le piazze.”
Tuttavia l’incontro non può essere immediato, perché il processo di distillazione è lento, ma comunque sicuro.
Infatti, subito dopo aver incontrato le guardie, i “due amanti”, finalmente si incontrano.
Le guardie possono essere considerate, in questo
caso, come degli accompagnatori, una sorta di spiriti guida, custodi della memoria e appunto, per il loro ruolo, protettrici di questa.
La città non è altro che il corpo dell’uomo e il suo tempio.
Quando perciò, si risveglia la memoria, il connubio si compie; l’amato viene stretto in un abbraccio amoroso e non viene lasciato finché non sia portato nella casa della madre, cioè la genitrice dell’amata.
Qui la madre è la Madre Terra, è il crogiolo dove maturano i semi che vi sono posti, ecco perciò, che le due energie, (amato-amata), si uniscono nel talamo della rigenerazione.
Nei versi, infatti, lei parla di lui, dopo averlo ritrovato e lui parla di lei in un interscambio continuo di emozioni e sensazioni e soprattutto trasformazioni dell’energia dell’amore.
Ora lei riposa e lui chiede che non sia disturbata, perché in quest’atto del riposo, si maturano gli effetti di un lavoro precedentemente compiuto, per la costruzione della Gerusalemme che qui assume la valenza di una condizione di pace e giustizia che va interiormente realizzata.
Ad avallare quest’atto di trasmutazione divina, cui partecipano le due energie opposte ma complementari (i due amanti), è l’allusione che la poesia fa alle gazzelle e alle cerve dei campi.
Il loro significato simbolico, fa riferimento, per quanto riguarda le prime, alla loro velocità; associata all’elemento aria, essa è estremamente volatile, come lo è il mercurio, non a caso è infatti l’amato ad essere paragonato a questo animale.
La cerva, invece, sempre all’erta e a volte insicura, viene gemellata con l’aspetto ancora indifferenziato dell’animalità, ma nel caso specifico del processo alchemico, è invece la stessa energia che deve essere fissata per mezzo della volontà.
Il movente di tutto ciò è l’amore; ecco perciò che dal “deserto” salgono dei fumi che esalano profumi di incenso e mirra.
E’ un fumo, quindi, che alimentato dall’intenzione dell’amore, ha una valenza superiore a quello di cui si fa cenno nell’Apocalisse di Giovanni e che fuoriesce dal pozzo (cap. ix).
Infatti, pur se nei due casi, esso rappresenta sempre la distillazione della materia, mediante l’evaporazione, nel Cantico dei Cantici, gran parte dell’opera si è compiuta e il deserto, non ha più l’aspetto di terra arida, inospitale, quasi abbandonata da Dio,
ma si trasforma in terra promessa, fertile e vitale, perciò da essa ora esalano incenso e mirra, profumi molto più vicini alla divinità.
La terra dannata si è tramutata in terra santa, gli ebrei (forza spermatica) hanno compiuto il loro percorso e hanno accesso al Sancta Sanctorum, testa dell’uomo.
Così appare la lettiga di Salomone. Come letto, quindi, rappresenta il posto dove ci si rigenera durante la notte, dove si fa l’amore ma dove anche si muore; pertanto questo letto è il luogo dove l’energia subisce una specie di travaglio di se stessa per morire e poi rinascere sublimata.
Ecco, quindi, che essa è coadiuvata e protetta dai sessanta prodi che proprio per la presenza del numero sei, alludono a quella forza germinativa, che deve per mezzo della “guerra”, risultare vincitrice.
In questo senso, quindi, la guerra può essere considerata proprio come mischia, mescolamento.
Nei versi che seguono leggiamo: “Il baldacchino s’è fatto il re Salomone”.
Nella descrizione che ne segue, gi elementi con i quali esso è stato costruito, hanno tutti un profondo significato alchemico.
Il legno, ad esempio, è per molte tradizioni, il simbolo della materia o sostanza universale, materia prima e in essa si cela una saggezza e una scienza segreta.
L’oro e l’argento di cui sono fatte le colonne e la spalliera, sono un richiamo alle due energie solare e lunare, cioè quella femminile e quella maschile.
Opposte ma complementari, sono necessarie a che si raggiunga per mezzo della loro unione perfetta, lo stato androgino che, come ultima fase del magistero alchemico, feconda tutto l’essere mediante la circolazione del sangue, simbolo corrispondente al seggio di porpora: sostanza rossa.
In questo modo, rinascendo a nuova vita, ci si impossessa della vera giustizia che fa rigenerare ogni cellula (le figlie di Sion), che così partecipano allegoricamente all’incoronazione di Salomone, sulla cui testa viene posta la corona che sua madre, cioè la sua mater materia, gli ha posto sul capo, nel giorno in cui le nozze sacre hanno fissato nel cuore la gioia dell’amore, unendo in Agape le due terre, quella degli inferi e quella del cielo.
Gli accostamenti continui delle bellezze di lei e di lui, con gli animali, suggerisce il sinergismo che si crea con la natura, quando ci si riappropria dei suoi ritmi e quindi, ci si riaccosta alle leggi di equilibrio universali. Leggiamo infatti: “Gli occhi tuoi sono
colombe...le tue chiome sono un gregge di capre, i tuoi denti come un gregge di pecore tosate...” e così via.
Tutti questi animali, hanno, non a caso, un simbolismo che richiama o la libertà o la sostanza primordiale, ancora immanifesta, con un riferimento ai tre colori alchemici, il nero, il bianco e il rosso e ancora, come nel caso della colomba, allo Spirito di Dio che aleggia sulle acque della materia indifferenziata. C’è quindi, un preciso riferimento alla potenzialità concentrata nella natura umana, e non solo, anche ad una operatività che si palesa seppur velata dalla allegorica liricità e soavità dei versi.
Questi, nel loro fluire, descrivono le bellezze di lei (l’amata), sempre accostati ad elementi che fanno arte del Regno Animale e anche di quello Vegetale, come ad esempio, la bocca che viene paragonata ad uno spicchio di melograno.
Quando l’atto amoroso si è compiuto, prima che il sole si riaffacci al nuovo giorno, lui (l’amato) dice che ritornerà al monte della mirra e alla collina dell’incenso; ora, questi versi, contengono dei simbolismi che inducono a percepire la condizione in cui si trova l’energia, dopo che sia stato compiuto un atto amoroso cosciente.
Ritroviamo infatti, i profumi dell’incenso e della mirra.
Il primo relazionato anche al fuoco e alla qualità delle resine incorruttibili, che servono a prepararlo, allude alla funzione sacerdotale, all’elevazione verso l’alto e anche al tentativo di spiritualizzazione della materia, con la quale in alcune tradizioni, vengono identificati, elementi come il sangue, la linfa, lo sperma ecc.
L’incenso viene in questi versi, gemellato con la collina alla quale spesso, si dà il significato di “prima creazione del mondo, la prima materia solida che emerge dal caos primordiale”; quindi, in un certo senso, la prima identificazione del germe primigenio che veicolato dall’intenzione cosciente viene elevato verso l’alto dove l’attende, “il monte della mirra”.
Il monte, con le implicazioni riguardanti la sua altezza, molto maggiore rispetto ad una collina, allude al traguardo ascensionale finale, quello dove l’energia ben indirizzata, raggiunge la testa dell’uomo e qui viene fissata. Ecco, quindi, comparire questo binomio monte-mirra.
La mirra, infatti, proprio per l’utilizzo che se ne faceva di conservazione dei corpi mummificati, ha la proprietà di mantenere inalterato ciò che con essa viene a contatto. Così, analogamente, fissa, appunto e mantiene, ciò che l’energia germinativa si è conquistata: la sua espansione nel Sancta Sanctorum del tempio-uomo.
L’uno e il due hanno originato il tre e questi a sua volta si è ricongiunto all’uno, mediante il processo di distillazione continuo che si innesca con una salita e poi ridiscesa del nettare divino che proviene sempre dalla stessa fonte, infatti i versi recitano: “Vieni con me dal Libano, o sposa, con me dal Libano vieni.”
Come si evince, questi sono speculari come se i due amanti si fondessero, in un’unica persona e nella loro emancipazione, lei risvegliasse la memoria mercuriale del padre contenuta nel suo elisir di vita e lui la memoria mercuriale della madre insita nel suo stesso mercurio.
L’indipendenza spirituale è riguadagnata, la sposa diventa sorella, sangue del proprio sangue che va ad irrorare tutto il giardino dell’Eden, che risvegliandosi, dona i frutti prelibati dei suoi alberi. Dal Libano (organo riproduttivo maschile) sgorgano ruscelli che bagnano i giardini e l’aria si profuma di zafferano, cannella e cinnamomo, aromi che per il loro colore e per le loro qualità terapeutiche, hanno affinità con l’oro; materia o metallo incorruttibile.
L’anima, ovvero l’amata, elevata alla più alta purificazione, ha preparato il giardino per il suo amato e quivi è invitata a godere appieno dei suoi frutti: “Mangio il mio favo e il mio miele” recita l’amato, sapendo che da quest’atto si produrrà nel suo giardino-tempio-corpo, un miracolo che separerà lo spesso dal sottile, così che questa sostanza elaborata e affinata si trasformerà nell’elisir di lunga vita.
Il miele, il latte e poi il vino, sono infatti tutti alimenti associati alla bevanda d’immortalità degli Dei; sono la Terra Promessa o, quanto meno, gli alimenti per poterla raggiungere.
Gli amanti si pensano: “Io dormo ma il mio cuore veglia”, si cercano “Apri sorella, mia amica”, ma per far sì che la loro unione produca concretamente l’effetto proiettato dall’intenzione, non ci possono essere indugi... “Mi sono tolta la veste, come indossarla ancora?...” Lo sposo scompare, non è più all’uscio; il mercurio si è volatilizzato, esso è velocissimo. Va colto l’attimo.
L’anima privata della sua parte spirituale è costretta a ripercorrere la città a ritornare agli inferi, dove malmenata e denudata dalle “guardie”, deve ricongiungersi alla sua essenza, fino a che le figlie di Gerusalemme, cioè le cellule, non ritrovino il suo amato; non riproducano il mercurio.
Questo è riconoscibile nello sposo stesso, che lei dice essere “Bianco e vermiglio”, perché per poter creare, è necessario che l’energia pirogeneratrice , sia unita a quella idrogeneratrice per compiere il miracolo della cosa una.
Con gli effetti che l’unione perfetta dell’energia produce, l’amata descrive il suo diletto alle “figlie di Gerusalemme” con dovizia di particolari che ne esaltano le qualità e la bellezza.
Il corpo dorato, i riccioli neri come il corvo, i denti bagnati nel latte, sono tutti elementi che evocano la precisa consapevolezza di una realtà che si è venuta a creare attraverso l’alchimia dell’amore sacro.
Tale realtà, quanto più viene descritta, tanto più risveglia la memoria di archetipi che solo con un lavoro di sgrossamento e distillazione dei Quattro Elementi, quindi mettendo ordine nel caos, incominciano a palesarsi. Ci si avvicina al mondo delle cause.
Così, quando viene citato il balsamo: “Le sue guance come aiuole di balsamo” o l’alabastro “Le sue gambe colonne d’alabastro” o ancora l’avorio “Il suo petto è tutto d’avorio”, sono tutti elementi che rispecchiano il lavoro di trasformazione che la materia ha subito per mostrarsi poi in natura, con le sue forme più belle.
Tutto ciò è analogamente da accostare all’uomo che per mezzo del magistero della sua propria trasformazione, restaura in sé la sua meravigliosa natura originaria.
Il diletto (Mercurio), è nuovamente sceso a pascolare le sue greggi e a cogliere gigli, è andato, cioè a rinnovarsi e a rigenerarsi: simbolismo del giglio; fino a quando, proprio per quest’atto di nuova depurazione, i due amanti non si incontrano di nuovo.
Leggiamo infatti: “Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me”, da cui si evince questa nuova unione delle due energie.
Questo è un lavoro che la “materia prima”, reiterata, distillata e purificata nuovamente, compie in modo ritmato; non è un caso, infatti, che i versi che seguono, a questo punto dell’opera, siano identici a quelli incontrati precedentemente: “Le tue chiome sono come un gregge di capre che scendono dal Galaad. I tuoi denti come un gregge di pecore che risalgono dal bagno. Tutte procedono appaiate e nessuna è senza compagna”.
A conferma di quanto sopra detto, ricordo che la pecora, simbolicamente, è collegata all’agnello e in questo caso, l’agnello che toglie i peccati dal mondo è quello che risale dal bagno rigenerato, a cui accostiamo il significato alchemico del mercurio.
Ora, raggiunta la massima esaltazione dell’Opera, nessun confronto è più possibile: “Unica è la mia colomba, la mia perfetta...”
Generata da sua madre, la sua stessa matrice, l’amata o anima ora è la preferita.
All’anima che ha saputo gestire, veicolare e mettere a profitto, sia l’energia germinativa, sia la giustizia che deriva dal buon utilizzo di questa, né le sessanta regine, né le ottanta spose, né tantomeno energie più comuni, potranno insidiare la sua posizione privilegiata.
In questa coppia di numeri riportata all’unità, abbiamo il 6 e l’8.
Se paragonata alle carte dei Tarocchi loro corrispondenti, per il 6 troviamo la lama dell’Innamorato che rappresenta la scelta, mentre il numero 8 è la lama della Giustizia, binomio che identifica l’elemento fecondante l’anima e la virtù che si acquisisce dalla buona riuscita di quest’atto.
La poesia dei versi del Cantico dei Cantici, prosegue ancora con descrizioni dei due amanti, che sempre paragonate alle bellezze della natura e ai suoi frutti, esaltano al massimo il rapporto uomo-donna, anima-spirito, nel momento più sacro della loro esistenza: quello dell’atto amoroso.
Quando poi si fa accenno alla mandragora (mandragola), è spontaneo accostarla a quell’alone di mistero che la circonda come pianta usata sia in medicina che in magia e soprattutto perché, probabilmente il suo etimo, derivante dal persiano mardum-gia, assume significato, pianta dell’uomo.
Si sa, questa è un’erba velenosa, ma qui nel Cantico dei Cantici, essa manda profumo e proprio per le sue peculiarità magico- terapeutiche, potrebbe essere accostata alla “materia prima”, che come già evidenziato, può apportare beneficio o esalare il suo veleno. Anche questa, in fin dei conti, è l’essenza di una “pianta dell’uomo”.
L’amore si sublima a tal punto, che diviene vera e propria arte, persino i confini indotti dalla parentela, vengono superati... “Se tu fossi mio fratello, allattato al seno di mia madre”... “Mi insegneresti l’arte dell’amore”...
Ora, è solo questione di eredità scritta nel sangue e la passione che lo scuote, transustanziando qualsiasi appetito puramente carnale, assume la funzione di spoletta che innesca la scintilla fra materia e spirito.
L’atto di amore, si impregna del
suo vero significato; la trasmissione di un profondo segreto che coinvolgendo i due amanti li stringe in un abbraccio dove la destra e la sinistra, cioè i due lobi del cervello in perfetto equilibrio, si uniscono nella spirale della coscienza cristica “La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia”.
La realizzazione di tale stato di grazia, è la condizione superlativa a cui l’uomo può arrivare, è una consapevolezza che riscatta ogni cosa per quello che è, cioè un’emanazione costante del fuoco della vita; per questo, essendo alfine, la matrice di tutto, questo fuoco ne diviene il denominatore comune, così che l’amore e la morte, per esempio, sono pregni della medesima forza “Forte come la morte è l’amore”.
Questo fuoco è una fiamma divina “Fiamma del Signore”.
Chi ha raggiunto la pace, diviene punto di riferimento, per le nuove generazioni e i frutti della vigna che si sono coltivati, cioè la conoscenza, vengono tramandati e affidati a chi ne è degno.
Questi ne diventano i custodi che in cambio daranno il denaro come segno di riconoscenza.
Tale denaro è la traslazione materiale dell’oro spirituale conseguito che viene trasmesso da bocca a orecchio con una ciclicità eterna che identificata nei 1000 sicli, riporta sempre all’unità.
La Grande Opera è stata portata a termine, il messaggio consegnato, ora si consegue uno stato di coscienza che ci permette di superare questo piano e ci si può, così, liberare sopra “I monti degli aromi”... verso l’oltre.