Capitolo Diciottesimo
Il Cambio
Avevo nove anni quando i miei decisero di cambiare aria e andare a vivere alla periferia della grande Buenos Aires.
Così un dì insieme a mia madre prendemmo quel treno sbuffante e partimmo; ero così felice di quell’esperienza di viaggio in quelle carrozze che tante volte avrei voluto provare, e sognavo ad occhi aperti avventure straordinarie in paesi lontani, e in quel momento iniziava realmente l’avventura della mia vita perché di lì a poco anche io sarei stato mandato in collegio dai preti, in un posto a più di settecento chilometri dalla mia cara famiglia, nella provincia di Cordoba.
Il mio papà mi accompagnò in treno fino alla città di Rosario e lì insieme alla mia valigia e il mio completino marrone mi consegnò in mano ad un prete.
Prima, durante il viaggio il mio papà mi aveva detto di comportarmi bene, di fare il bravo, di ubbidire e soprattutto di studiare, perché era molto importante per il mio futuro, e che lì mi avrebbero trattato molto bene visto che mio fratello era un prete della stessa congregazione, anche se lui si trovava in un altro collegio molto più lontano nella provincia di Misiones (dove fu girato il film Mission con De Niro).
Accettai quella condizione, e con gli occhi pieni di lacrime salutai il mio papà che se ne tornò a casa e io solo soletto rimasi nelle mani di preti sconosciuti.
Il giorno seguente un prete pelato e pancione fu il mio compagno di viaggio dalla città di Rosario fino alla provincia di Cordoba in un luogo chiamato Vignaud vicino ad un grande lago salato detto Mar Chiguita, ossia mare piccolo.
Ci fu un fatto in quel viaggio che mi fece fare una grande risata, fino a quando la sguardo del prete mi congelò la risata nel volto. Era chiaro che io non ero abituato a condividere con un prete la serietà della vita, perciò dovetti imparare a ridere dentro e a simulare il contrario dei miei sentimenti.
Doveva essere Carnevale del 1948, più o meno, e il treno con le sue carrozze di legno sbuffava faticosamente verso il nord del paese.
Ricordo che il caldo era soffocante perciò si viaggiava con i finestrini aperti, guardando scorrere i pali del telegrafo, mentre il fumo ancora acre della vaporiera entrava perfino dentro i miei polmoni.
Il prete seduto davanti a me grondava sudore e ogni tanto si asciugava la fronte con un grosso fazzoletto bianco, mentre leggeva il breviario e credo che lo facesse automaticamente, perché ogni tanto si appisolava e ciondolava la testa avanti e indietro.
Ad un cero punto il treno rallentò la corsa in una curva, e proprio ad un passaggio a livello un gruppo di ragazzi tirarono delle secchiate d’acqua verso i finestrini del treno, prendendo in pieno il mio compagno di viaggio e inzuppandolo dalla testa ai piedi.
Mezza carrozza scoppiò a ridere a crepapelle e anche io, fino a quando il prete bagnato si alzò in piedi e seriamente disse:
_Non ridere, per lo meno adesso sono più fresco di te!_ e si recò al bagno per asciugarsi.
Allora ne approfittai per lasciare libero sfogo alla mia ilarità e risi dentro e fuori fino alle lacrime e così mi sentii molto meglio perché quel fatto buffo liberò la mia tensione accumulata per l’abbandono della mia famiglia e il congedo da mio padre.
La stazione d’arrivo si chiamava Brinckman e lì c’era un sulky che ci caricò e ci portò verso il collegio.
L'uomo che lo guidava si chiamava Oronzo e aveva una gamba di legno, e questo fatto richiamava assai la mia attenzione, perché era la prima volta che vedevo un uomo così, e anche perché non sapevo che potessero esserci, mai nessuno me ne aveva parlato. Seppi poi che era il fac totum e il suo compito principale era quello del campanaro e lo chiamavano Cuadjutor.
Ricordo ancora che quest’uomo emanava un puzzo tutto particolare e che rifiutava l’acqua come fanno i gatti. Invece i preti puzzavano di sudore, incenso, candele e altre puzze personali, e loro tonache svolazzanti lasciavano una scia di odori personalizzati che si potevano identificare tanto da poter affermare con sicurezza che lì fosse passato padre tal de tali.
Prima di giungere a destinazione nel piatto orizzonte della campagna, che era una linea a trecentosessanta gradi, spiccava come un dito puntato verso il cielo, il campanile della chiesa del collegio con una croce sulla sommità e un potente parafulmine sopra.
All’arrivo come prima cosa mi diedero un numero, era il 39 e me lo cucirono sopra ogni indumento esattamente come un carcerato , mi indicarono il mio letto ed il mio armadietto dove sistemai ogni cosa, dalle lenzuola ai maglioni, dai calzini ai pantaloni e tutti gli altri indumenti intimi che la mia mamma con grande amore mi aveva preparato.
Consegnai la valigia vuota e il mio completino e in cambio mi diedero dei grembiuli grigi con il numero 39 cucito dietro al collo. Fatto ciò mi mandarono a giocare con i miei nuovi compagni a calcio in un grande spazio nel cortile dello stesso collegio, e lì mi capitò il primo problema.
Successe che diedi un calcio alla palla e insieme la mia scarpa volò nella sua traiettoria e uno dei ragazzini la raccolse per giocarmi uno scherzo, ma io riuscii a vederlo e avvicinandomi a saltini lo presi per il collo e insultandolo gli chiesi di ridarmi la mia scarpa.
Non l’avessi mai fatto, quello scoppiò in lacrime e andò a riferire al prete quello che gli avevo detto e fatto, e questo ignorando il fatto della scarpa se la prese con me ammonendomi ingiustamente; dicevano che lì le parolacce non si dovevano dire e tanto meno mettere le mani addosso ad un compagno ecc…
Rimasi veramente male, però siccome reagii allo scherzo con coraggio e tempestività, non mi presero mai più in giro e mi accettarono come nuovo compagnuccio.
Entrai nel terzo grado e iniziò la scuola, ma prima se ben ricordo la giornata iniziava così: ci alzavamo prestissimo e si correva nel grande bagno per l’igiene personale, faccia, orecchie e denti e le necessità corporee e poi si tornava nel grande dormitorio dove c’erano quattro file di letti per una sessantina di posti, più il letto del prete guardiano, tutto circondato da una tenda bianca girevole. Ci vestivamo come prima cosa, poi si rifaceva il letto che doveva essere perfetto e si aspettava in piedi che tutti gli altri bambini avessero concluso. Il prete suonava un fischietto e tutti in fila e in silenzio ci fermavamo nel grande cortile insieme ai mediani, ai grandi e noi eravamo i piccoli, per fare ginnastica.
Ricordo che in inverno faceva un tale freddo che battevamo i denti, mentre il naso e le orecchie erano rossi e ghiacciati e poi le nostre povere mani erano dei veri ghiaccioli e il prete diceva:
_Così si forgiano il vero spirito degli uomini, e soprattutto la volontà, forza bambini…!_
Non sto qui a ripetere cosa ne pensavamo noi bambini perché sottovoce i commenti si sprecavano. E poi tutti in chiesa, mentre la pancia si lamentava fino alla comunione, dove sinceramente nessuno capiva perché quel pezzetto di pane che non sapeva di nulla fosse il corpo di Dio; per lo meno i succhi gastrici si distraevano per qualche minuto ingannati da quel simulacro.
Finito il rito, tutti sempre in fila e in silenzio entravamo nella grande sala mensa dove ci aspettava una tazza di mate cotto con il latte, pane e dolce di latte che spalmavamo sul pane, che divoravamo come cavallette, allora il colore il calore ritornava sulle nostre guance screpolate. E da lì si andava in aula per le ore scolastiche. Dopo due ore più o meno c’era la prima ricreazione del giorno e la gioia esplodeva come una tempesta d’estate e le nostre voci riempivano ogni angolo dell’intero collegio, si correva, si giocava e soprattutto si rideva, perché a nove anni un bambino deve soprattutto giocare e giocare e poi giocare ancora, e allora decisi di giocare.
Capitolo Diciannovesimo
Le diverse attività
Scoprii che, non so per quale mistero, fui sempre uno dei primi della classe; forse per la mia memoria nel ricordare le spiegazioni del prete-maestro e, forse, perché ero simpatico e sempre disponibile per qualsiasi richiesta. La questione è che fui ben voluto da tutti, allievi e preti.
Così entrai a far parte della banda musicale e scelsi come strumento un flicorno in si bemolle. Studiai musica e imparai a strimpellare e penso che me la cavassi abbastanza bene.
Ricordo che nelle feste dei paesi vicini andavamo a suonare e io ero il più piccolo, così la gente mi regalava caramelle, perché risvegliavo un senso di tenerezza e ammirazione, e mi sorridevano e applaudivano quando passavo suonando.
Entrai a far parte anche del coro a cinque voci e si cantava musica gregoriana in chiave di fa. Così imparai anche a leggere le partiture musicali ed ero un contralto, addirittura solista.
Il prete maestro del coro era in gamba e ci proteggeva come un vero padre, ci riempiva le tasche di caramelle al miele e ci regalò anche una sciarpa per salvaguardare la voce durante l’inverno.
Quando cantavamo nelle feste solenni in chiesa, ricevevamo tanti complimenti e a detta di altri eravamo fantastici, il maestro che ricordo con grande devozione, si chiamava padre Croce e lo nomino qui per rendere omaggio alla sua memoria.
Poi come lavoro, pure se ero ancora piccolo, mi nominarono incaricato delle lampade a petrolio del nostro dormitorio, che ardevano tutta la notte, per illuminare con una luminosità molto fioca il percorso per recarsi in bagno. Questo lavoro che amavo molto mi concedeva delle libertà che agli altri erano negate, ma soprattutto al mattino: infatti, visto che si pulivano i tubi di vetro e si riempivano di combustibile per la notte, saltavo la mezzora di ginnastica e di notte ero libero di coricarmi quando finivo di accender tutte le lampade e appenderle lungo tutto il dormitorio. Così amavo quegli attimi di libertà che gestivo con grande dedizione.
Il collegio disponeva di una piccola centrale elettrica, però alle dieci di sera veniva spenta: ecco il perché di quelle lampade notturne. Disponeva anche di un panificio, un orto con ogni ben di Dio e in estate addirittura facevano il gelato.
A volte mi toccava servire a mensa o riempire le brocche con l’acqua che veniva estratta con una manovella, perchè questa acqua potabile era acqua piovana filtrata e raccolta in un grande serbatoio dove nuotavano delle rane che la mantenevano pulita da insetti e altri animaletti indesiderati; questo perché in quella zona tutte le falde acquifere erano salate.
Poi c’erano tre campi per giocare a calcio, uno per ogni gruppo, il nostro era il più piccolo, uno per i mediani da tredici a sedici anni, e l’altro per i più grandi, dove giocavano anche i preti. Visto che a me non piaceva il gioco del calcio e mi rifiutavo di giocare, mi facevano fare dei giri correndo attorno al campo insieme a qualche altro bambino con i miei stessi gusti, fino a cadere sfiniti con il cuore impazzito dentro il petto.
Questo fatto era di una crudeltà unica, perché si poteva avere un collasso. Da grande scoprii che avevo un soffio al cuore e non avevo resistenza per gli sport in cui si correva, però i preti, di un’eventuale disfunzione, se ne infischiavano; alla nostra età era importante sfinirci, per evitare così altre “distrazioni naturali”.
E fu grazie all’ignoranza di alcuni di loro che ebbi per tutta la vita la dentatura rovinata; successe che ogni sei mesi più o meno veniva a visitarci un dentista per controllare la crescita e lo sviluppo dei denti di tutti e insieme ad un prete incaricato di quelle faccende decidevano il da farsi.
Proprio in quel tempo mi stavano spuntando i canini e siccome lo spazio era poco mi crescevano sopra gli altri. Sapevo che ad alcuni di noi mettevano un apparecchio per guidare la crescita nella giusta sede, invece che fecero quei delinquenti?, ebbero la brillante idea di cavarmeli, così mi tolsero i due “pilastri” più forti della mia bocca e con il tempo il morso della parte superiore non era a forbice, batteva sulla parte inferiore, causando negli anni ascessi e spostamenti che i denti centrali erano decentrati.
Ogni volta che avevo a che fare con i miei denti, ricordavo quel dentista e quel prete che furono i protagonisti della mia disgrazia dentaria… e non dico in che maniera, però penso che lo potrete immaginare con facilità.
Un altro fatto che ricordo fu il seguente; e non c’era la mia mamma per risolvere il problema, e quindi dovetti impiegare tutta la mia volontà e il mio ingegno per far sì che nessuno si accorgesse e sistemare ogni cosa, in caso contrario gli sberleffi dei miei compagni sarebbero stati pesanti ed offensivi, invece tutto filò liscio e nessuno se ne accorse: mi svegliai nel mezzo della notte perché una forte scarica di diarrea mi sorprese ne sonno e pigiama e lenzuola e tutto il resto del vestiario era compromesso, tanto che all’inizio non sapevo cosa fare e come risolvere la situazione che era estremamente imbarazzante.
Invece mi alzai e con passi felpati presi il pigiamino di riserva e mi recai nel grande bagno, dove mi lavai per benino, mi asciugai e mi vestii nuovamente. Poi tornai a letto, sfilai i due lenzuoli e ritornando in bagno lavai anche quelli, poi rifeci il mio letto e mi infilai fra le lenzuola pulite e il resto della notte non dormii per paura che si ripetesse il fattaccio; però per fortuna, come accennai prima, nessuno se ne accorse. Al mattino, siccome godevo di quella libertà che mi ero guadagnato con il mio lavoro, sistemai le lenzuola e il pigiamino mettendoli ad asciugare . Ringraziai la fortuna e forze qualche altro santo; l’episodio rimase sepolto nella mia memoria e credo che questa sia la prima volta che svelo questo arcano.
Nel collegio c’erano diversi bagni, però quello nostro era tremendo e soltanto al mattino presto era normalmente agibile, ma poi era necessario coprirsi il naso con un fazzoletto, però siccome gli occhi erano scoperti, cominciavano a bruciare e a lacrimare. Così presi l’abitudine quando era necessario, di infiltrarmi in quello dei preti, pulito, profumato, con carta igienica e acqua a volontà; e lì chiudevo la porta a chiave e rimanevo a pensare e a fare i miei “sacri comodi” in santa pace e tranquillità.
Capitò che un giorno entrò qualcuno di corsa nel bagno accanto al mio, e in mezzo ad una “tempesta di fulmini e tuoni”, io non potei fermare il mio genio e cambiando il tono di voce gridai:
_ Hai mangiato fagioli per caso? _
Di colpo si fece silenzio e sentii che quello si rivestiva in fretta, e io mi resi conto di aver fatto una cavolata, così mi feci piccolo e rimasi in silenzio anche io e non mi mossi, perché se fosse stato il direttore sarei stato spacciato.
Sentii quel prete che camminava avanti e indietro e addirittura bussò alla mia porta, ma io niente, neanche respiravo. E dopo un tempo abbastanza lungo si stancò e se ne andò, mentre io con un grande sorriso di soddisfazione aspettai ancora e quando ritenni che ormai tutto fosse tranquillo, uscii alla chetichella senza che nessuno se ne accorgesse e anche questa volta la passai liscia e non seppi mai chi fosse.
Aspirante a prete
Con il passare del tempo i preti compresero che io ero sicuramente un soggetto ideale per fare il prete. Così d’accordo fra loro fecero con me una tale opera di convincimento che iniziarono a privilegiarmi in ogni cosa, nel cibo, nelle attività,e un giovane prete che diventò il “mio amico” e la mia ombra, fu il primo a parlarmi della possibilità di entrare a far parte dell’aspirantato e di diventare anche io un prete come mio fratello, e che Dio aveva scelto anche me come suo ministro, e perciò…
Io ancora bambino dissi subito di si, perché lo consideravo un gioco, oltre alla convenienza in tutte le cose, per ricavarne un beneficio, unica cosa quella che realmente mi interessava.
Figuratevi: che ne potevo sapere io di trascendenze?, e poi, soprattutto di vocazione e di tutto il resto, tanto che loro erano sempre pronti a colmare qualunque lacuna o dubbio.
E si, quelli sapevano il fatto loro fino in fondo, e il loro lavoro di “educatori” senza ombra di dubbio era eccellente.
Così non feci altro che godere della mia nuova situazione. Addirittura mi diedero una sottana nera che si indossava nelle feste e commemorazioni insieme agli altri e ci insegnarono a cantare:
Non mi importa
Se la gente mi
Chiama fraticello,
io ti amo… ecc…
La canzone si riferiva alla madonna. Poi c’erano escursioni in campagna, pic-nic e tante altre faccende che non c’era spazio per lamentarsi.
Un giorno mi fece chiamare il direttore. Era un uomo di grande corporatura con una pancia bene in vista e quando entravi nel suo ufficio gli si doveva baciare la mano e lui ti invitava a sedere dandoti una caramella. O forse io ero ancora un soldo di cacio ed essendo piccolo vedevo lui come un gigante.
La questione era che dovevo scrivere al mio papà raccontandogli della “mia decisione” e che davanti ad un rifiuto loro avrebbero risolto ogni problema e io non dovevo preoccuparmi di nulla, perché c’era don Bosco che mi aveva scelto e la madonna Ausiliatrice che mi proteggeva.
Così scrissi a mio padre cui quasi venne un colpo quando lesse la mia missiva e non voglio sapere quali “benedizioni” indirizzò ai miei educatori, perché ormai uno se l’erano preso, però l’altro – che sarei stato io – mai e poi mai!
Era una consuetudine spedire le lettere con la busta aperta, perché lì c’era una forte censura e se qualcosa non andava, ti chiamavano e dovevi riscrivere nuovamente la lettera come volevano loro. Poi quando ricevevi una lettera o un pacco, la aprivano prima loro e se c’era una frase o qualcosa che non andava secondo il loro criterio, la cancellavano; o era una rivista di fumetti e allora non te la davano. Questo era il regime totalitario che allora si respirava e si viveva in quei collegi di preti.
Credo che oggi le cose siano cambiate un po’, ma comunque allora non c’era da scherzare più di tanto.
Il ritorno
Comunque per fortuna avevo una dono di natura che sempre nella mia vita fu un vettore che guidò i miei passi per la selva oscura della vita: era il senso di giustizia e fu questo dono che mi fece scoprire determinate faccende che non andavano, denunciando i fatti al direttore del convento.
E furono quei fatti, sommati ad atteggiamenti che non andavano, a farmi prendere la decisione di lasciare tutto e tornare fra i miei a casa.
Però, come fare per avvisare il mio papà che volevo lasciare il collegio?
Le lettere erano censurate, e se avessi inviato la mia richiesta sicuramente non sarebbe passate, e forse neanche la lettera, così dovetti escogitare un piano per burlare quel controllo e spiegare al mio papà come stavano le cose. La questione era che dentro di me non sopportavo più quella vita finta, fatta di falsi sorrisi e di cose imposte, annullando completamente il sano sviluppo della personalità, collocando al suo posto quello che loro ritenevano giusto, per formare un buon prete; e io avevo intuito che non era quella la mia via.
Un giorno pensando ad una soluzione, questa arrivò di colpo e realizzarla mi costò caro!, tutta la mia collezione di francobolli, quella di figurine – ogni quaderno ne possedeva due e io ne avevo un centinaio-, un sacchetto pieno di palline di vetro colorate di diverse misure, e il resto del “tesoro” che ogni bambino possiede e custodisce gelosamente.
Questo fu il prezzo che pagai ad un bambino esterno che viveva nel paese fuori dalle mura del collegio. Ricordo che faceva di cognome Toscano e a ricreazione si giocava insieme e quando gli proposi il mio piano con la mia richiesta e quello che ero disposto a “pagare”, quello accettò immediatamente di affrancare la mia lettera ed imbucarla nella cassetta postale del paese e soprattutto di mantenere il segreto.
Era fatta, così di nascosto scrissi al mio papà, spiegando tutta la faccenda e la mia volontà di lasciar perdere il collegio, i preti e tutto quello che era religione e che ne avevo fin sopra i capelli; tutti i giorni messa, confessione una volta a settimana e fare sempre quello che volevano e mai quello che tu volevi, fino ad annullare completamente il motivo reale per il quale sei nato.
Dissi al mio papà nella lettera di richiamarmi e di inviare i soldi per il biglietto del treno che era urgente, però non doveva accennare in nessun modo che tutto era partito da me. Chiusi la busta e alla prima occasione la diedi di nascosto al mio compagnuccio Toscano, che il giorno seguente mi confermò l’invio.
Quei giorni di attesa furono insopportabili, passavano e passavano e ancora niente, quando finalmente il direttore mi convocò nel suo ufficio. Era molto buono con me e subito mi diede una caramella e mi invitò a sedermi, io gli baciai la mano e mi sedetti.
_Abbiamo un problema _ mi disse _ tuo padre richiede la tua presenza urgentemente e vuole che tu rientri a casa _
Io non sapevo come simulare la mia gioia e tossii varie volte, allora quello continuò:
_ Prima di rispondere pensa bene a quale sarà la tua risposta, prega molto la madonna e Domenico Svio e quando lo riterrai opportuno mi farai sapere che cosa avrai deciso. Ora va’ e non ti preoccupare che a tuo padre pensiamo noi, e Don Bosco penserà a te… _
_ Si, si _ risposi , e mi congedai. Il mio cuore stava per scoppiare dalla gioia e il mio piano funzionava perfettamente.
Continuai a studiare e a compiere il mio lavoro come se nulla fosse accaduto ed aspettai, aspettai, e nulla, nessuno mi diceva niente e cominciavo ad innervosirmi, quando finalmente in una ricreazione vidi il padre direttore che mi veniva incontro fermandosi proprio davanti a me con un grande sorriso.
_ Allora _ mi domandò _ cosa vuoi fare, rimani o vuoi andare via? _
_Voglio andare via _ risposi molto sicuro di me. Sapete cose fece allora quel santo uomo di prete?, mi prese per le orecchie e mi sollevò da terra, mentre io potevo sentire tutto il suo respiro e il suo odio; poi mi lascio cadere sul pavimento facendomi sbattere il sederino con gran dolore; piansi e nessuno venne a domandarmi cosa fosse successo. Sicuramente tutti sapevano e cominciarono a considerarmi un estraneo.
Trascorsero alcuni giorni ancora e nessuno mi rivolgeva la parola, fu un inferno, e io avevo appena dodici anni, però tenni duro e una notte verso le quattro del mattino uno dei ragazzi grandi mi svegliò e mi disse:
_ Dai, alzati, che torni a casa! _
Mi vestii in fretta e mi lavai e quando ritornai, sul letto c’era la mia valigia aperta; la riempii in fretta e furia e quando mi misi la giacca del completino marrone mi accorsi che era troppo piccola; in quei tre anni ero cresciuto. Allora la mia guida mi portò ad un grande armadio e mi invitò a misurarmi una giacca di quelle che c’erano lì.
Scelsi una bellissima lana con la martingala che mi calzava a pennello e una sciarpa, perché era
Inverno e faceva tantissimo freddo. Lo stesso ragazzo grande mi accompagnò in sulky alla stazione, comprandomi il biglietto e mi invitò a salire in carrozza, depositò il mio bagaglio, mi salutò e andò via.
Mi trovai solo e senza un soldo, perché i preti o si dimenticarono o lo fecero apposta, perché mio padre disse che nella lettera c’erano anche i soldi per il biglietto e per me, perché il viaggio durava un giorno intero e io dovevo pur bere e mangiare qualcosa; però sul momento mi consolai, perché sapevo che quella sera stessa mi sarei trovato al calduccio dalla mia famiglia, con mamma, papà, le mie due sorelle e il mio fratellone più grande, compagno di tante avventure.
Meno male che accanto a me si sedettero una giovane famigliola; lui, lei e due bimbi; all’inizio ci salutammo e basta, però con la coda dell’occhio vedevo che mi osservavano e parlavano fra loro, mentre io vedevo “correre” il paesaggio dal finestrino e pensavo che di li a poco avrei abbracciato i miei, godendomi la libertà che in quel collegio non c’era e che in cambio era pieno di regole, precetti, ordini, e peggio di una caserma della Legione Straniera.
Anche quel treno sbuffava, fumava, e in ogni passaggio a livello faceva sentire il suo fischio avvisando del suo passaggio rumoroso. Io incominciai ad avere fame, perché senza colazione, senza un soldo o una miserabile pagnottella, la mia pancia iniziò a rumoreggiare e si lamentava del vuoto; che fare?
Ecco che la famigliola accanto capì il mio stato e mi domandarono _ Vuoi mangiare con noi ragazzino? _
_ Si _ risposi immediatamente.
_ Allora vieni, siediti con noi _ e la signora, che Dio la benedica, mi diede un bel pezzo di pollo, pane e un bicchiere d’acqua, e mi guardarono mentre divoravo quella manna che il cielo mi donava.
Penso che proprio in un caso così puoi trovare il divino o la grazia, che lì dove ero stato si sognavano, pure partecipando a mille messe. Perché questa grazia veicolata dall’amore con la lettera maiuscola si manifesta nelle cose semplici ed amorevoli, e così nell’amore di quelle persone si manifesto ciò che io senza sapere cercavo.
Finalmente verso le ventidue il treno arrivo alla grande stazione centrale di Retiro e lì ad aspettarmi c’era il mio papà e mio cugino di nome Francesco e lì, con l’anima in subbuglio e le lacrime negli occhi mi sentii dopo un tempo così lungo per un bambino, nuovamente a casa mia.
Conclusione
Fu festa grande in casa, proprio come il racconto del Figliol Prodigo, e tutti eravamo felici, specialmente il mio papà, che quasi si era rassegnato a perdermi per sempre, e di lì a qualche giorno ebbi un sogno che mi cancellò di colpo ogni residuo di senso di colpa; prima però voglio ricordare al lettore che la mia educazione era religiosa e che i simboli che il mio inconscio utilizzava erano quelli cristiani, perciò…
Sognai di trovarmi in mezzo ad una tempesta sul Golgota, e proprio davanti a me c’erano le tre croci, quella del Maestro e le due accanto dei ladroni. Io ero soletto in ginocchio sotto la croce del Salvatore e non c’era nessuno, né soldati romani, né gente del popoli, solo vidi una presenza femminile vicino avvolta in uno scialle nero che piangeva. Insomma, eravamo soltanto due e io guardavo il Maestro che appeso al legno mi osservava.
Ad un certo punto dal suo corpo uscì una luce dorata sdoppiandosi nel Cristo Glorioso che scese davanti a me. Era vestito con una tunica di luce e il suo volto non aveva nessun segno della passione. Mi sorrise invitandomi ad alzarmi, mi abbracciò e mi baciò nel centro della fronte e io sentii un’ondata di calore riempirmi tutto l’essere tanto che versai lacrime di gioia, mentre quella luce rientrò nuovamente nel corpo martoriato di Gesù.
Mi svegliai di soprassalto bagnato di sudore, tremando dalla testa ai piedi. Era una bella sensazione e il mio corpo sussultò per alcuni minuti, non saprei dire quanto. Quando finalmente cessò la tremarella sentii che qualcosa era cambiato in me, ed effettivamente dallo stato di bambino passai a quello di ragazzo e da questo punto in poi, la storia è un’altra…
Fine
di
Alfredo Cellini Lupetto |