Capitolo Quattordicesimo
La cucina economica
La stanza più animata della nostra casa era a cucina; sempre viva, era il luogo in cui si trascorreva più tempo; lì si cucinava, si mangiava e ci si rilassava.
Era il centro, il sancta sanctorum, perché quello era il luogo, dove il capo indiscusso era la mamma, che, come un’antica vestale, custodiva il fuoco sacro che bruciava nei fornelli della cucina economica.
Questa macchina da cucina era di ghisa con sei fornelli, che si potevano coprire con dei cerchi di ferro che si incastravano dal più grande al più piccolo, chiudendo completamente i fori dei fornelli, lasciando così la piastra infuocata dove si potevano fare delle bistecche, pesci, formaggio, patate, tutto quello che si voleva.
Sopra c’era un serbatoio per l’acqua calda e il tubo dove il fumo andava a finire fuori, e come girava prima facendo un percorso più lungo, servivo per riscaldare l’ambiente e per asciugare il bucato.
Sotto, al centro, c’era il forno da dove uscivano torte, dolcetti e altre prelibatezze.
Il combustibile che bruciava era legna, carbone e soprattutto dei torsoli di mai sgranati, ovviamente, che ci regalavano i contadini.
L’unica condizione era quella di andarli a prendere, perché si trovavano in grande quantità nei porcili.
Così la mia collaborazione in quei casi era molto utile, perché entravo nel fango, dove si trovavano i torsoli, però non solo erano coperti di fango, ma anche di pipì e cacca di maiale e puzzavano terribilmente. Così, dopo un po’. Anche io coperto di fango, non sentivo più quel terribile puzzo.
Riempivamo una decina di sacchi di iuta pieni fino all’orlo e papà, con spago ed un grosso ago, li cuciva, chiudendoli, poi si caricavano dietro ad un sulky e rientravamo a casa e li scaricavamo ammucchiandoli dentro la stanza degli attrezzi; poi, come premio, ci attendevano un buon bagno caldo e una bella saponata.
Il fatto era che quando si bruciavano veniva fuori un profumino di porcile, un po’ più sublimato, che quando ti abituavi non sentivi più.
Accanto alla cucina economica c’era una cassetta di legno dove si conservavano i ciocchi di legno, i torsoli, i rametti e tutto quello che si poteva bruciare come combustibile.
La conservazione dei cibi
Anche se non c’erano i frigoriferi, si inventavano altri modi per conservare gli alimenti in modo naturale: per esempio la carne si appendeva ad un gancio dentro un contenitore, fatto con una retina tipo zanzariera, a un ramo d’un albero, all’ombra e alla corrente d’aria fresca. Anche per i formaggi il sistema era simile.
Le salsicce fresche si conservavano in un contenitore di latta pieno di grasso di suino, erano buonissime e non perdevano il loro sapore.
Le uova, invece, quelle per il consumo della famiglia, in un contenitore di legno pieno di calce cruda.
I limoni si avvolgevano in una carta di giornale, le mele, sparse sul pavimento di mattoni, in un luogo areato e fresco. I grappoli d’uva appesi alla trave del soffitto, e così via…
Invece dal soffitto appese in cucina c’erano aglio e cipolle, salami, pancetta e lonza.
Il pane e le gallette si tenevano in casse di legno con coperchio, anche la farina si conservava così, invece quella di mais per la polenta, in contenitori di vetro.
Nel vetro si conservavano i legumi secchi, tipo fagioli, ceci lenticchie e piselli.
Poi c’erano marmellate, miele, “dolce di latte”, sottaceti, conserve, passate i pomodoro in bottiglie sott’olio come peperoni, melanzane, ecc…
Bè, non ci mancava nulla, anche perché il mio papà curava l’orto dove c’era di tutto secondo le stagioni e quando nelle fattorie si ammazzavano i maiali, lui andava a dare una mano e ritornavamo carichi di roba fresca per la nostra dispensa.
Ricordo che fu in una di quelle mattanze che mi fecero mangiare sanguinaccio, cotto lì per lì.
Addirittura una volta l’anno fabbricavamo il sapone, che non era profumato, però per fare il bucato era buono e a volte anche per l’igiene personale.
Gli unici prodotti che si compravano in paese erano: farina in sacchi di tela bianca, zucchero, vino, sale olio, gallette, e cherosene per le lampade.
E a proposito di cherosene; in casa c’erano due damigiane di venti litri ciascuna, una era per il vino e la seconda per il cherosene e si distinguevano più per l’odore che per altro.
Una notte finita la cena mio padre andò alla dispensa dove c’erano le due damigiane una accanto all’altra, e nel buio s’attaccò al collo di quella che lui credeva contenesse vino rosso bevendo una lunga sorsata.
E nel buio pesto sbagliò damigiana tracannando cherosene.
Ormai non c’era nulla da fare e aspettò bevendo caffè e altri liquori per ammazzare quell’orribile saporaccio, però vide con gioia che non gli capitò nulla di male, anzi…
Il mio papà soffriva sporadicamente di coliche al fegato e quando gli capitavano addirittura si lamentava dal dolore, perché era tanto.
Bene! Dopo quella benedetta sorsata non gli capitò mai più tanto che quasi si gridò al miracolo…
Realmente lui non era un bevitore, però in compenso ciccava, brutto vizio che imparò durante la Prima Guerra mondiale nelle lunghe ore di guardia nelle trincee perché era una specie di droga che propinavano ai soldati per tenerli svegli.
Per questo motivo in tutti i locali pubblici era obbligatorio avere delle sputacchiere perché a chi ciccava tabacco aumentava la salivazione sputando in continuazione.
Perciò c’erano avvisi che decretavano: “È vietato sputare per terra”. Comunque quell’epoca passò e quel vizio sgradevole si cambiò in quello della sigaretta e del fumo, e le sputacchiere in posacenere.
In questo tempo anche il vizio del fumo sta scomparendo e chi ancora fuma è fuori moda.
Però, ahimé il cambio che si prospetta è senza dubbio il peggiore di tutti.
Capitolo Quindicesimo
Giovannino
Giovannino era il più assiduo parrocchiano dello spaccio di vino e liquori, ossia del boliche.
Arrivava a piedi dalla fattoria dell’inglese che l’ospitava, al mattino presto, e si era guadagnato un posto fisso davanti al bancone.
La sua età era indefinita e aveva sempre più di ottant’anni e meno di novanta. Al mattino quando ancora era sobrio dava una mano all’oste spazzando il locale e sistemando sedie e tavoli.
Nessuno conosceva la sua storia, dove era nato, cosa aveva fatto nella sua vita e perché si trovava lì. Ormai era parte del posto e tutti quanti lo apprezzavano, e chi non gli offriva un bicchiere di vino?
Anche a lui i giovanotti giocarono uno scherzetto che fu un grande divertimento per tutti e soprattutto per lui, perché raccontava la storia per filo e per segno e non spiegando cosa e perché era accaduto, rideva da matto, mostrando le gengive senza denti e per giunta contagiava con il suo umore tutti quanti.
Cosa era successo al Giovannino?
Ogni volta che sentiva la necessità di muovere il ventre si recava al vicino campo di mais che era a un tiro di schioppo e, superate le prime file di piante, sicuro che non vi fossero occhi indiscreti, depositava soddisfatto il suo apporto di concime organico.
Poi si girava, guardava il suo prodotto e usando carta di giornale o le stesse foglie di mais per togliere ogni residuo, s’accomodava i calzoni e ritornava felice ad occupare il suo posto davanti al bancone.
L’ideatore ed esecutore del tiro mancino fu mio fratello.
Comunque i soliti erano tutti avvisati, così quando il Giovannino s’incamminò verso il campo di mais con dei fogli di giornale in mano, scattò l’azione.
Mio fratello prese una vanga avviandosi pure lui, però facendo il giro lungo arrivò alle spalle del pollo, che canticchiava e rumoreggiava mentre depositava il suo dono alla terra, senza sospettare che qualcuno con una vanga aveva raccolto l’intero deposito.
Quando Giovannino si girò, come fanno tutti, per ammirare la sua opera, scoprì con sorpresa che non c’era nulla!
Era tutto sparito, scomparso, volatilizzato, era sconcertato perché aveva la certezza di aver superato il chilo di roba e non si rassegnava.
Così prese a girare attorno, però non c’era nulla da fare, la scomparsa era un mistero.
Allora rientrò e raccontò a tutti quello che era successo, in mezzo alle risate generali dei suoi compagni di bisbocce e del mio fratellone che ci riuscì appieno.
Anni fa vedendo uno dei film “Amici miei” vidi lo stesso scherzo, con la sola differenza che mio fratello lo mise in atto negli anni quaranta del secolo scorso in Argentina.
Comunque mi fece sommo piacere vederlo, perché mi ricordò mio fratello e quegli anni della mia infanzia che furono meravigliosi.
C’era un giorno particolare dove gli scherzi si sprecavano, era il primo aprile che lì si chiamava “Il giorno degli innocenti”.
Allora si preparavano alcuni pacchi regalo che nascondevano delle sorprese e si lasciavano i cesti posti vicino all’innocente scelto per la sua ingenuità, che quando scopriva l’oggetto, facendo finta di nulla lo prendeva e lo nascondeva nei suoi vestiti, per scomparire da qualche parte lontano da occhi indiscreti.
La sorpresa sarebbe stata che l’incauto avesse aperto lì per lì “il regalo” che il destino gli faceva, però questo non è mai accaduto e quando riapparivano si leggeva nel loro volto la delusione per la fregatura ricevuta.
Allora i vicini informati gli domandavano se per caso avesse trovato un pacchettino così e cos, e tutti a ridere… prendendolo per i fondelli.
Generalmente i pacchi doni contenevano escrementi di animali. Una volta però ci misero dentro una bella serpe morta e alla persona che ricevette il pacco e l’aprì, quasi venne un colpo.
Comunque non si andava oltre, erano scherzi per ridere e divertirsi, mai per offendere, pure se a volte alcuni soggetti reagivano male, però siccome “a chi tocca non s’ingrugna”, si finiva a tarallucci e vino.
Quasi tutti gli abitanti di quella terra erano stranieri o discendenti di immigrati, soprattutto italiani, l’unico autoctono era il poliziotto. E tutta quella marea di europei era fuggita dalle guerre e aveva scelto una terra che assicurasse per loro e la loro famiglia una vita in pace e piena di prosperità.
Ecco da dove nasceva l’umorismo di quella gente e la gioia di vivere e lavorare, per costruire un futuro che in quei tempi, in Europa, gli veniva negato.
Capitolo Sedicesimo
La veglia funebre
Questo scherzo e il seguente sono stati fatti quando ero un ragazzo e non vivevo più in campagna. Comunque, furono delle opere d’arte. L’ideatore era più grande di me, quasi un uomo.
Questo amico che si chiamava C. G. e che chiamerò Tito, venne al negozio a comprare alcuni pacchi di ceri e fui io a servirlo.
Lui abitava di fronte alla nostra casa, in un accampamento di operai addetti al mantenimento delle strade di quella zona.
Il suo compito lavorativo era di dipingere i cartelli della segnaletica stradale. In quel posto vivevano parecchi di questi operai e con i più giovani e alcuni più anziani eravamo tutti amici.
Incuriosito gli domandai a che cosa servivano quelle candele, anche perché fuori non era ancora buio.
_Vieni con me e vedrai_ e si mise a ridere…
Lasciai qualcuno al mio posto e lo seguii. Questi operai abitavano in due in piccole casupole basse, dove c’erano due lettini e un tavolo in mezzo con quattro sedie, un cucinino a gas, alcuni scaffali e un armadietto a due ante.
Di queste casette ce n’erano una dozzina più o meno, e noi, gli amici, ci riunivamo a fare bisbocce sempre in quella di Tito e del suo compagno più anziano, chiamato Sinforoso L.
Ma Tito quel pomeriggio inoltrato con le candele, non andò alla sua casupola, ma ad una di fronte di un certo Beltran, che stava sul suo lettino a smaltire una colossale sbornia.
Mi bastò vedere Beltran che dormiva per capire al volo la situazione. Così mentre costui russava come un maiale aiutai Tito a preparare la scena, togliendo tutto quello che non serviva e il letto con lui sopra lo collocammo in mezzo; e mentre Tito preparava le candele, io presi dei fiori di alcuni giardini vicini che posizionammo atTorno a lui che ancora dormiva come un angioletto.
Il “maestro” disse:
_ Ancora manca qualcosa ?_
_ Una croce_ risposi…
_ Si, hai ragione, vai a prenderla _
Corsi a casa e presi il crocifisso della camera di mio fratello e il rosario della mia mamma e tornai dal Tito, che sistemò croce e rosario fra le dita delle mani del Beltran.
Allontanandosi dal “morto” affermò:
_ Ora si, che sembra tutto vero… _
Si spalancarono i due battenti della porta e nella notte che stava calando la scena sembrava reale, così tutti gli operai, gli amici e l’incaricato, chiamato capataz partecipavano sconsolati al funerale dell’amico, con lamenti, finti pianti un po’ esagerati, e fecero un baccano tanto che svegliò il “morto”.
Un urlo terribile squarciò il silenzio della notte e il Beltran in mutande uscì precipitosamente per scomparire nel buio come un’anima in pena perseguitata da mille diavolo. E così quella sera si rise e non si parlò d’altro.
All’indomani il Beltran armato di revolver voleva vendicarsi di Tito, però gli amici e i compagni lo dissuasero dal farlo.
Così il Tito per farsi perdonare offrì un buon asado dove si mangiò e si bevve a sazietà; mentre il Beltran si guardò bene dall’ubriacarsi, come era sua abitudine, e poi nel tempo, si mormorava che non si ubriacò più, dopo quel fattaccio, mentre il Tito dal canto suo ripeteva:
_ Non l’avrei creduto mai…!_
Beltran e la caduta dei capelli
In un’altra occasione il Beltran si recò alla pelucheria di mio fratello per farsi tagliare i capelli, e come al solito, parlando del più e del meno, gli confidò tra l’altro, che ultimamente perdeva tantissimi capelli e gli chiese se lui conoscendo il suo mestiere gli poteva indicare una cura, perché gli dava molto fastidio rimanere pelato alla sua età.
_ Si, senz’altro_ rispose mio fratello ammiccando, e vedendo che si presentava un’ottima opportunità per giocargli un bel tiro al Beltran.
Era in una simile occasione che veniva fuori il genio , e l’artista improvvisava la sua opera magistrale.
_Dici davvero?_ disse il Beltran.
_Sicuro, vuoi la ricetta ?_
_Si, si, dai, mi interessa_
_Devi sapere caro Beltran che questa ricetta me la insegnò un curandero indio che anni fa passò da qui e in cambio di un piccolo aiuto volle sdebitarsi, così mi comunicò il segreto. Forse tu avrai sentito parlare di lui, si chiamava Jacinto_
_No, realmente, o forse si, mi sembra…_ rispose il Beltran pensieroso e attento, mentre mio fratello con la macchinetta gli tagliava i capelli.
_Bene, bene_ continuò a dire il “genio”.
_Devi procurarti quattro uova di serpente e se non le trovi, perché non è facile trovarle, basterebbero due di gallina, mezzo etto di escremento di gallo, e l’atro mezzo di fecola di patate, una spremuta di limone e infine sette gocce d’olio, non di più, dovrai essere preciso senza sbagliare_
Beltran ascoltava in silenzio, mentre mio fratello continuava:
_Quando avrai tutti questi elementi, dovrai con cura mischiare il tutto. A quel punto, il tocco finale consiste nel lasciare riposare il preparato per una notte sotto la luna piena, e al mattino seguente applicarlo sulla testa, arrotolarci un asciugamano e tenerlo così due ore precise. Poi ti lavi e di lì a qualche giorno vedrai la differenza_
Beltran contento e soddisfatto pagò, lasciando anche una mancia, forse pensando più alle uova di serpente che alla cacca di gallo.
Il passo successivo fu di chiamare Tito e metterlo al corrente della cura per la caduta dei capelli di Beltran, di avvisare tutti, e di essere vigili e riferire qualsiasi movimento strano del “pollo”.
Nei giorni successivi lo videro dopo il lavoro cercare in giro, rovesciando ogni sasso, tronco d’albero, cespuglio, eppure se qualcuno gli domandava cosa cercasse, non lo rivelava a nessuno per paura che lo prendessero per i fondelli, però tutti ridevano a denti stretti e tutti sapevano ed erano al corrente della ricetta “dell’indio Jacinto”.
Dopo aver cercato dappertutto e non aver trovato nessun nido di serpe, si rivolse alla moglie del capataz con una strana richiesta e cioè se gli permetteva di entrare nel pollaio per scegliere di persona alcune uova e già che c’era lo avrebbe anche pulito spazzando per terra; quello che non disse è che doveva prendere escrementi di gallo.
_Si, faccia pure, gli rispose la signora_
Passarono i giorni e nessuno seppe più nulla di quella faccenda, però una domenica mattina il “pollo” era seduto davanti alla sua casupola con in testa un asciugamano a mo’ di turbante, bevendo il mate tutto felice e tranquillo.
Con la velocità del fulmine si sparse la voce e tutti, uno o due per volta, passarono davanti “all’indiano” che beveva tranquillo il suo mate.
Alcuni domandarono incuriositi che significava quel turbante che portava in testa e lui rispondeva evasivamente:
_Nulla, così…_
Qualche giorno dopo il Beltran andò da mio fratello che era pronto a reagire in caso fosse offeso, però lui nella sua ingenuità gli disse:
_Sai Antonio, che i miei capelli non cadono più?, la ricetta ha funzionato. Mi domando come sarebbe andata se invece di uova di galline avessi usato uova di serpente; grazie, grazie, lo continuerò a fare_
Mio fratello rise più che mai e ancora di più quando riferì all’amico Tito quella conversazione e pensò che a volte i fatti della vita sono imprevedibili.
Capitolo Diciassettesimo
L’analfabeta
In un’occasione in cui l’amico Tito andò da mio fratello per farsi tagliare i capelli ed io ero presente, gli parlò di un nuovo operaio arrivato all’accampamento.
Disse che si trattava di un giovanotto oriundo delle province del nord e che costui era bugiardo e pieno di sé e che le raccontava grosse.
Si vantava di avventure amorose e che addirittura stava fuggendo da una situazione compromettente nella quale aveva abbandonato una fidanzata in stato interessante, dopo aver litigato con lei e sua madre, che secondo lui era una vecchia stregaccia.
Tito era indignato per quelle affermazioni e così con il suo compagno di capanna Sinforoso L. decisero di giocargli un tiro mancino con l’intezione di dargli una bella lezione di vita.
Come al solito chiese l’aiuto di mio fratello e me e riuniti parlammo della faccenda fino a quando non trovammo un’idea che piacesse a tutti.
Fu proprio mio fratello a parlare per primo:
_Ho un’idea che può funzionare benissimo_
_Di che si tratta_ domandò Tito.
_Gli scriverò una lettera, come se fosse la vecchia strega, lo rimprovererò, lo maledirò e gli manderò una malocchio che lo perseguiterà fino a quando non ritornerà fra le braccia della figlia chiedendo perdono_
_Meraviglioso!, affermò il Tito sfregandosi le mani e aggiunse: non vorrei essere nei suoi panni, gli prenderà un accidente quando leggerà_
_Bene_ asserì mio fratello_ così imparerà a rispettare le donne_
_Forse costui è nato da una scrofa_ dissi io _ e tutti risero. E Tito contento se ne andò.
Quella sera stessa mio fratello impiegò tutta la sua arte nello scrivere quella lettera e non solo, perché, siccome si dilettava nel disegno, illustrò con alcuni simboli stregoneschi lo scritto. Lesse due o tre volte la lettera fino a quando ritenne che era perfetta.
_Vai_ mi disse_ portami un ramoscello di ruta_
Quando tornai con la ruta, lui stava preparando la busta. Era una di quelle che si usava in questi tempi, foderata con carta velina color viola scuro.
Adesso vedrete fino dove arriva la genialità di un artista:
Che fece?, scollò con delicatezza un pezzetto di quella velina e con un piccolo cono di carta a mo’ di imbuto versò polvere di zolfo che distribuì accuratamente al suo interno, fra la fodera e la busta che poi introducendo la lettera e il ramoscello di ruta chiuse con la saliva, com’era d’uso allora.
Scrisse nome e indirizzo; sig. Anacleto Guerra, accampamento di… ecc…ecc… incollò un paio di francobolli e li timbrò inviando la raccomandata.
Dopo un paio di giorni il capataz ricevette tutta la posta e per fare le cose perfette, l’avrebbe consegnata lui come di consuetudine.
Quella sera si fece un asado e fummo tutti invitati, sapevamo che il capataz ad un certo momento avrebbe consegnato la posta e così fu…
_Anacleto Guerra, c’è una lettera raccomandata per lei!_
Anacleto emozionato rispose:
_Per me….. è sicuro?_
_Sicuro, si_ rispose il capataz _ non credo che ci sia un altro con questo nome.
_Allora è sicuramente di una donne_ la guarda e l’odora infilandola in tasca.
Che fregatura, pensammo e ci guardammo e fu il Sinforoso L. a intervenire.
_Che fai, non la leggi?, forse si tratta di una notizia importante_
_Si, si…_dissero tutti in coro.
_È una raccomandata_ disse il Tito insistendo…
Dopo tanta insistenza finalmente si decise. La tenne fra le mani, la girò e la rigirò, l’avvicinò alle narici, la odorò _si_disse_è di una donna_ e la stava rimettendo in tasca tanto che Tiito, sospettando qualcosa disse:
_Se credi te la leggerò io, penso che tu sia molto emozionato_
_Si, si, dai, per favore_ e consegnò la lettera a Tito che non aspettava altro e che con delicatezza l’aprì strappando il bordo; estrasse la lettera e iniziò la lettura rimarcando ogni parola con grande drammaticità:
_Signor Anacleto Guerra, sono la madre di Florinda, le scrivo perché sono infuriata con lei, dispiaciuta e delusa dal suo comportamento vile e miserabile!, non avrei mai immaginato che lei dopo le promesse di amore eterno alla mia figliola, abbia approfittato della sua innocenza e verginità possedendola più volte per poi abbandonarla in stato interessante; in conseguenza di tutto ciò io, la mamma, la maledico e la stramaledico adesso e per sempre. Amen!_
Mentre il Tito leggeva, agitava il ramoscello di ruta e l’Anacleto, bianco in viso e tremando come una foglia, balbettava parole sconnesse.
_Continua ancora _ disse il Tito e…
_Lei, signor Anacleto, crede di farla franca scomparendo?, no, sarebbe troppo facile e come vede questa lettera l’ha raggiunta così la mia vendetta di madre la raggiungerà e la calpesterà come un essere miserabile….ecc…ecc...
Anacleto, il forte macho sicuro di sé, crollò come un birillo scoppiando in lacrime e pianse come un bambino, mentre i presenti si intenerirono e cercarono di calmarlo.
Il Sinforoso L., l’anziano, il sapiente, disse:
_Brucia la lettera, bruciala subito!_
Fuori c’era il resto del fuoco dell’arrosto e in fretta e furia prese la lettera con il foglio e con un gestaccio la buttò nella brace.
Però, ecco l’arte, immediatamente dalle fiamme uscì fuori il colore blu dello zolfo, poi verde chiaro, poi giallo…ecco dei globicini azzurri e il “pollo” ignorando tutto ciò si fece la pipì addosso e fu lì dove tutti si fermarono.
Il giorno seguente Sinforoso L. ci raccontò che l’Anacleto dormì poco e male e che non uscì dalla capanna, che fece la pipì in una bottiglia e che verso mezzanotte…
_Signor Sinforoso, mi aiuti lei_ chiese disperato e il compagno gli consigliò di pregare, perché era un modo per rilassarsi.
_A chi?, non ho neanche una medaglietta_ disse rammaricato.
_Non ti preoccupare, ci penso io…_ e rovesciando una cassetta…
_Eccoti, questa è l’immagine di san Manuele_ e gli consegnò una medaglia con il volto del campione automobilista Juan Manuel Fangio e quello, pensando che fosse un santo, lo baciò e lo pregò tutta la notte.
Allora il Sinforoso si rese conto che l’Anacleto era un analfabeta ed ebbe compassione di lui, chiamò Tito e gli raccontò di quella notte di tribolazioni e decisero di concludere lì la faccenda.
Allora Tito, mio fratello ed io, decidemmo di convincere un signore che si chiamava Ricardo di farsi passare per uno stregone e dopo avergli raccontato tutto quello accettò volentieri e ad un’ora stabilita bussò alla capanna dei nostri amici mentre io lo accompagnavo.
_Buona notte a tutti lor signori, chi è l’ammalato?_
Questo finto curandero entrò benissimo nella parte, si era messo un vecchio giacchettone, un cappellaccio sulla testa e fumando un sigaro puzzolente puntava verso lo stregato una zampa di gallo.
_Io, sono io, mi curi dottore, mi tolga questo terribile malocchio…_
_Datemi un mazzo di carte_ concluse lo stregone. Poi con calma e con tutti gli sguardi addosso mischiò le carte e disse rivolgendosi all’Anacleto.
_Prendi una carta figliolo…._ forse, anzi sicuramente, fu un caso che prese l’asso di spade e nel silenzio più assoluto, l’altro gli disse:
_Cavolo!, ti vogliono far fuori!, però…non ti preoccupare, io ti toglierò la maledizione. Si, è una donna e pure vecchia…anzi, è una strega!, si, vedo, vedo, dovrai chiedere perdono, scusarti, è l’unica maniera, ecco, ecco, con queste carte il male ti è stato tolto. D’ora in poi stai tranquillo, si, è tutto finito._
Finalmente tutti, incluso il “pollo” ridevano soddisfatti, il tiro era riuscito bene, anzi, benissimo, perché l’Anacleto Guerra pagò un asado per tutti.
Dopo un paio d’anni, ormai era stato trasferito in un altro posto, mi trovavo davanti al negozio e vidi l’Anacleto accompagnato da un altro, tutti e due ben vestiti, e mi domanda:
_Senti ragazzo, mi sai dire dove posso trovare il dottore?, sai, questo mio amico ha un problema simile al mio e il dottore è l’unico che lo potrebbe guarire._
Feci uno sforzo per non ridere e gli risposi:
_No, il dottore non abita più da queste parti_ e allora gli domandai come finì il suo problema.
Mi rispose con un ampio sorriso:
_Tutto è apposto, mi sono sposato e ho un bellissimo bambino…_ Mi salutò e se ne andò insieme all’amico…
-Continua nel prossimo numero-
di
Alfredo Cellini Lupetto |