Capitolo Quinto
Il giorno che il curato vide il diavolo
Accadde che una vecchietta quasi centenaria ogni domenica pomeriggio si recasse al cimitero a pregare per le anime dei defunti, parenti e non, insomma tutti.
Era un “lavoro” faticoso per la poveretta, perché fin dove le forze lo permettevano puliva le tombe, strappava le erbacce, cambiava l’acqua alla madonna del Carmine, in suffragio delle anime del purgatorio.
Finiva con una e ricominciava da capo con la seguente. E dai e dai, il sole era ormai calato da un pezzo e il buio pian piano prese il posto della luce; la pia vecchierella, presa da tanta devozione, non si accorse che era rimasta sola.
Il custode con funzione di becchino, un tale Gerlando, anche lui vecchio, si dimenticò della sua coetanea e, credendo che ormai il campo santo fosse dessero, accostò i due battenti della porta di ferro battuto, passò il catenaccio chiudendo il lucchettone, accese un puzzolente toscano e si avviò verso la catapecchia in cui abitava con cani e gatti.
Ad un certo punto la vecchierella si rese conto che era rimasta l’unica anima vivente in quel luogo dell’eterno riposo e si incamminò verso l’uscita. Chiamò più volte Gerlando, pero, purtroppo, la cancellata era chiusa e fuori non c’era più nessuno.
Che fare? Tutto attorno era circondato da un muro di cinta alto quasi due metri e lei, si e no, superava a malapena il metro e cinquanta centimetri.
Si guardò attorno con l’unico occhio buono - perché l’altro era cieco per via della cataratta – scoprendo un mucchio di terra contro il muretto e, senza pensarci su due volte, si arrampicò lì sopra, notando che soltanto mezzo busto superava la parete.
Fin lì c’era riuscita e affacciandosi oltre vide che la parete esterna era più profonda di quanto immaginasse e se si fosse lasciata cadere sicuramente le sue ossa calcificate dalla vecchiaia si sarebbero spezzate come fuscelli.
Pensò però che avrebbe comunque dovuto fare qualcosa. Così si alzò la sottana e con tutta la forza che riuscì a trovare scavalcò e si sedette sul muro.
C’era riuscita!, si assicurò per bene di essere in equilibrio per non cadere, si coprì la testa e le spalle con lo scialle nero ed aspettò. Prima o poi qualcuno sarebbe passato di lì e vedendola le avrebbe dato una mano a scendere; così ringraziò Dio, come sempre faceva.
Dopotutto, anche la sua famiglia, prima o poi, vedendo che non rientrava, si sarebbe preoccupata.
Il cielo non era ancora scuro del tutto, così la nostra protagonista seduta sul muro sembrava un grande uccellaccio nero appollaiato la cui sagoma era ritagliata nel chiarore del cielo e da lontano poteva incutere paura a qualche passante distratto.
Infatti si ritrovava a passare da quelle parti proprio il curato che, finito l’ufficio della sera, s’era intrattenuto a sistemare alcuni oggetti sacri.
Rientrava in casa di amici dove cenava e dormiva ritornando, il mattino seguente, al convento cui apparteneva.
La vecchietta in mezzo al silenzio sepolcrale di quel luogo sentì che qualcuno si avvicinava e per farsi sentire cominciò a strillare e ad agitare le braccia disperatamente.
Ottenne però l’effetto contrario, perché, quando il prete guardò nella direzione da cui provenivano quegli strilli rauchi e strazianti e, vedendo una sagoma nera che agitava delle grandi ali come fosse un pipistrello gigante, fu colto dal panico e fuggì terrorizzato a gambe levate, scomparendo nell’oscurità della notte.
Quando il povero prete giunse affannato dai suoi amici era bianco in volto come un cencio e, respirando a fatica per la grande fuga, spiegò loro quello che era appena accaduto: - Ho visto il maligno… era il Diavolo in persona! -
Tutti lo guardarono increduli e perplessi, mentre il capo famiglia lo interrogò.
-Com’è possibile padre, forse si è confuso?-
- No, no- rispose lui- dico sul serio, era Satana in persona che mi chiamava, era in piedi sul muretto del cimitero e batteva le ali da pipistrello emettendo strilli d’oltretomba-
- E voi, padre, cosa avete fatto? - domandò un altro.
- Ho preso il mio crocifisso e con coraggio e risolutezza gli ho gridato “Vade retro Satana “ e, ipso facto, il maligno è scomparso nel nulla in mezzo ad una nuvola di zolfo! -
- Beva padre, beva - dissero offrendogli un bicchiere di vino.
Il giorno dopo in tutto il paese non si parlava d’altro e la notizia del curato che aveva visto il diavolo passò di bocca in bocca in un batter d’ali.
Invece quella sera, i famigliari della vegliarda, preoccupati del mancato rientro della nonnina, si recarono dalle parti del cimitero per recuperarla.
La chiamarono a squarcia gola cercandola dappertutto, ma di lei non c’era traccia, così rientrarono a mani vuote.
Ma cosa era realmente accaduto alla poveretta?
La nonnetta, in preda all’agitazione, per richiamare l’attenzione aveva perso l’equilibrio ed era caduta con un capitombolo sopra il cumulo di terra rotolando fin dentro ad una fossa aperta dove, intontita dalla botta, si era addormentata.
L’indomani all’alba furono i suoi famigliari a scoprire insieme al vecchio Gerlando il mistero; lei dormiva beatamente con un sorriso, senza nemmeno un graffio, dentro alla fossa fresca.
E, ironia della sorte, sei mesi dopo la vecchina morì e la sua salma venne tumulata proprio in quella fossa.
Poi, la storia dell’apparizione del Diavolo; l’intero mistero si infittì perché i parenti della vecchietta si premurarono di non dire a nessuno quello che era accaduto, per evitare scherzi e commenti di cattivo gusto.
Fu così che questo fatto accaduto al prete, sommato a quello di Giovannino, fece sì che passare di notte nei pressi del cimitero diventasse una sorta di prova di grande coraggio e sangue freddo.
Capitolo Sesto
Il cavallo e altri fatti
Quando compii nove anni io e la mia famiglia ci trasferimmo in città; per me fu come scoprire un mondo nuovo e ostile e subito percepii la differenza con gli altri bambini cresciuti in città.
L’esempio più lampante per un bimbo di campagna è la conoscenza dei fenomeni naturali che non teme, ma anche di ragni, serpe, rospi, animali selvaggi, da cortile, da lavoro, rettili e volatili. Mentre il bambino di città è bravo nel rapportarsi con le persone e l’ambiente cittadino.
Con questo voglio dire che è consigliabile che i bambini che non conoscono la campagna tengano con sé un cane, un gatto o qualche altro animale, perché questi amici dell’uomo e ancora di più del bambino non sono soltanto dei compagni di giochi, ma dei veri maestri di vita.
Il cavallo
Un giorno insieme alle mie sorelle decidemmo di prendere un cavallo in prestito, giacché legati fuori alla sbarra ce n’erano parecchi.
Fu così che ne adocchiammo uno dall’aspetto mansueto e, senza chieder il permesso al proprietario, lo accostammo ad una cunetta e, uno per volta, montammo in groppa. La prima fu la più grande, poi l’altra e per ultimo io.
Era nostra intenzione fare un giretto nei dintorni e riportarlo dove lo avevamo preso, tanto nessuno se ne sarebbe accorto, invece…
All’inizio l’animale andava al passo e si prospettava un’allegra cavalcata, ma il cavallo, che è una bestia molto furba, si era reso conto che quelli che portava in groppa erano appena tre marmocchi senza nessuna esperienza, così, il furbacchione, si portò in mezzo alla strada in direzione della sua fattoria, lanciandosi al galoppo.
Da subito mia sorella più grande, che tirava le redini, si ritrovò sul collo dell’animale, aggrappata alle sue orecchie. L’altra, in mezzo, saltava come se avesse una molla sotto il sedere, mentre io ormai ero abbracciato ala coda e stavo scivolando pericolosamente.
Fortunatamente più avanti un contadino ci vide in difficoltà e capì subito la situazione. Si portò in mezzo alla strada riuscendo a frenare e calmare il quadrupede. Prese le redini e ci riportò da dove eravamo partiti.
Ci diedero una bella sgridata, specialmente a mia sorella più grande e quello che successe poi non me lo ricordo.
In un’altra occasione insieme a Carletto, un mio amichetto figlio di contadini inglesi, prendemmo due vecchi brocchi in pensione che pascolavano nei dintorni.
C’era stata una corsa di cavalli nei paraggi e noi decidemmo di emulare quei cavalieri. Inoltre fu proprio in quell’occasione che, per la prima volta, mangiai un gelato; ancora ricordo la sensazione che provai. I gusti erano limone e cioccolato.
Quei due vecchi cavalli tutti pelle e ossa erano veramente buoni, perché quando gli facemmo dei morsi con una cordicella loro non protestarono.
Decidemmo poi il punto di partenza e quello di arrivo, collocammo sopra la groppa un paio di sacchi di iuta, montammo e, inchiodando i talloni nei fianchi ossuti, partimmo al galoppo verso il traguardo, segnalato da qualche indumento colorato.
Io credo e sono convinto che queste creature abbiano un’anima, o per lo meno qualcosa di molto simile, che siano in grado di pensare e che, addirittura, si accordino tra loro.
Perché?, sapete come andò a finire quella corsa improvvisata? I due brocchi corsero alla pari e, arrivati al traguardo, piantarono per terra le zampe anteriori, abbassarono le teste e noi cavalieri volammo sopra i loro colli atterrando alcuni metri davanti a loro con il sedere per terra.
Quando ci girammo a guardare le nostre cavalcature, i vecchi brocchi mostravano i denti gialli come se stessero ridendo soddisfatti di noi, e anche a noi non restò che ridere. Forse quello scherzetto ce l’eravamo meritato.
Comunque in quelle terre i cavalli, dopo aver lavorato una vita, vengono lasciati liberi e in pace, sempre nei propri campi recintati, così da godersi una degna e ben meritata vecchiaia. Perciò, dopo quella esperienza, imparammo ad avere più rispetto per questi animali.
Un’altra attività che ogni tanto facevamo a cavallo era la caccia alle pernici. Ma prima voglio chiarire che la cacciagione era abbondante e la quantità di specie era impressionante; quando cacciavamo lo facevamo per mangiare, perché allora il cibo si produceva nelle fattorie e non c’erano i supermercati come oggi!
Ricordo che il macellaio, chiamato carnicero, passava una volta alla settimana con un carretto trainato da un cavallo e, dietro il sedile, aveva un vano per la carne.
Era un italiano di nome Avellino.
Mia madre comprava da lui per il fine settimana quello che serviva per la nostra famiglia di sette persone.
Questo Avellino era molto simpatico e, poiché si fermava un po’ dappertutto, era latore di notizie, commenti e chiacchiere della fattorie della zona.
Ogni volta mi regalava un bell’ossobuco dicendo - È per te, così cresci sano, forte e robusto… -
Invece un altro, che passava con un carrozzone, era un signore del Libano, chiamato “Il Turco”, che vendeva stoffe, fili, bottoni, pantaloni e tutto il necessario per una famiglia. Quando vedevo arrivare il carrozzone correvo da mia madre e gridavo - Mamma, arriva Il Turco, arriva Il Turco…! -
Ce n’era poi un altro che passava più di rado e commerciava articoli come pentole, tegami, coltelli e tutto quello che poteva servire alle massaie.
Perciò li non ci si poteva annoiare mai e poi c’era il treno, il via vai di gauchos, contadini, agricoltori, gente di passaggio, i clienti della pelucheria, della posta e del boliche.
E poi… - Mamma, papà - gridai - Sta arrivando lo zio Fabiano, arriva lo zio -
Questo personaggio era molto simpatico, costruiva sedie di legno con la base di giunco intrecciato.
Era un vero artista.
Anche lui arrivava con il suo carretto trainato da un cavallo e portava sempre con sé una doppietta caricata a pallettoni e tante sedie che vendeva dappertutto.
Era sposato con una sorella di mio padre, però i suoi ancora non lo avevano raggiunto.
Così rimaneva a pranzo con noi, si faceva tagliare i capelli, si riposava insieme al suo cavallo e prima di sera ripartiva.
Dovete sapere che molte volte dovevo fare servizio di vedetta per mio fratello più grande, perché quando in lontananza appariva un puntino all’orizzonte, che potevano essere le sue amiche, lui disponeva di una manciata di minuti per prepararsi e farsi bello.
Allora prendevo un cannocchiale tipo quello dei pirati e mi arrampicavo su un grande albero a da lì individuavo più o meno chi erano e, quando vedevo giusto, venivo ricompensato a dovere.
Era buffo mio fratello, perché quando si trattava di ragazze si faceva trovare mentre suonava la fisarmonica, disegnava o leggeva.
Voleva fare colpo ad ogni costo.
A proposito della caccia di pernici, attività che adesso non farei più, ma che allora era divertente, si faceva a cavallo.
Così Carletto ed io, ognuno in groppa al proprio cavallo, entravamo nei campi seminati impugnando una lunga frusta.
Quando uno di questi uccelli veniva individuato, gli giravamo intorno alcune volte fino a quando non rimaneva imbambolato e allora… zac!, con una frustata ben centrata ci rimaneva secco.
Quella sera si mangiava pernice fritta, e quanto era buona!
C’erano quaglie, lepri ed altro, però erano tutti più grandi e difficili da cacciare.
Comunque, da quelle parti c’era una comunità di immigrati abruzzesi, che comprendeva anche la mia famiglia, legata da solidarietà ed aiuto reciproco.
Così, ogni volta che ci si faceva visita reciprocamente si portavano dei doni: cacciagione, marmellate, salsicce, formaggi ed altro.
In quei tempi difficili ogni cosa era un aiuto considerevole, anche perché c’era la guerra e la sua eco si faceva sentire anche dalle nostre parti.
Ogni tanto si andava a fare visita a qualche fattoria che lì chiamavamo chacras , di parenti o amici, e dopo cena si giocava a tombola, si parlava della guerra, specialmente della patria lontana e dei parenti che combattevano su diversi fronti.
Ero molto piccolo, così mi mettevano seduto accanto ai miei genitori su un alto seggiolino dove mi annoiavo tantissimo e ricevevo ogni tanto, per stare buono, una bella fetta di torta e poi mi addormentavo, senza ricordare più nulla.
-Continua nel prossimo numero-
di
Alfredo Cellini Lupetto |