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Le Avventure di Alfredino detto Menelik -2-
(20/02/2011)

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Capitolo Terzo

Uno spaccato di quella realtà

Come accennavo prima, mio padre e mio fratello maggiore dirigevano l’ufficio postale di quella zona rurale della provincia di Buenos Aires.

La nostra abitazione era di lamiere di zinco ondulate, e internamente foderate di legno.

Poi c’erano due stanze di mattoni, una era l’ufficio postale e l’altra, un po’ più grande, un locale dove si vendevano articoli di profumeria, tabacchi, dolciumi e materiale per la scuola, con annessa una stanza per la pelucheria.

Quella campagna era una delle più produttive dell’Argentina, in particolar modo per l’agricoltura e per il bestiame.

La terra era grassa e nera e ogni raccolto un tripudio di gioia per i contadini.

In quell'incrocio di caminos accanto alla stazione ferroviaria dove si fermavano i treni a vapore, vivevano alcune famiglie, una manciata di casette, una scuola, una chiesetta, un campo santo, un poliziotto e grandi magazzini per i cereali.

Noi eravamo emigranti, anche se ignoravo cosa significasse. Mio padre, mia madre e i miei due fratelli più grandi erano venuti dall’Italia, che era per me un luogo molto lontano, più in là del mare, e ci voleva più di un mese di nave per arrivarci, o così mi raccontavano. La questione è che ci chiamavano gringos e io non sapevo il perché.

Comunque, dall’altra parte della strada abitava la famiglia di Aurora; il papà, anche lui straniero, era il proprietario del boliche e dell’ Almacén .

Il primo era l’equivalente di un saloon, mentre il secondo era una sorta di supermercato dove si vendeva di tutto per soddisfare le necessità dei gauchos  e dei contadini. Poi uscendo, da una parte c’era lo slargo dove si giocava a bocce e di fronte una sbarra dove si legavano i cavalli, un distributore di benzina celeste con una palla di vetro con la scritta YPF , una manovella e un lungo tubo di gomma.

Il padre di Aurora possedeva un camioncino mezzo sgangherato che utilizzava per trasportare le merci. Ricordo che fu grazie a questo che una sera ci portò a vedere il primo film della mia vita, in un paese vicino. Eravamo io, Aurora, il padre e le mie due sorelle.

Seppi poi della sua morte alcuni anni dopo che ce ne fummo andati via da lì e pensai alla povera Aurora, la mia cara amica e quella notizia mi rattristò moltissimo.

Più in là del Boliche  abitava l’amministratore dei magazzini dei cereali, anche lui sposato con due figli: Marta, di un paio di anni più di me e il suo fratellino più piccolo.

C’era poi la casa di un uomo italiano che abitava da solo e che a causa della solitudine per la lontananza della sua famiglia aveva perso la ragione; però con noi bambini era molto buono e noi gli facevamo spesso visita.

Più avanti, sempre affacciati sulla strada, c’erano la casa del poliziotto, il suo ufficio, il calabozo e la casa. Era sposato con un figlio, Oscar, con cui, anche se aveva un paio di anni più di me, giocavo spesso insieme.

Continuando con la descrizione, c’era poi il club di atletica; una piccola abitazione, un campo da calcio e una pista da ballo in terra battuta. Il tutto diretto da Pedro, anche lui figlio di genitori italiani emigrati.

Questo Pedrito, come veniva chiamato, abitava da solo e la cosa particolare era che sia in inverno che in piena estate portava sempre una sciarpa intorno al collo. Lui non sudava mai.

In quegli anni nessuno aveva il telefono, non era arrivato ancora, così quando si doveva avvisare che quella sera c’era il ballo, si sparavano in aria delle bombe che venivano sistemate in un tubo di ferro e s’accendevano e scoppiavano in aria due o tre volte con dei boati fortissimi. E siccome la campagna lì era tutta piatta, il rumore si propagava per svariati chilometri intorno.

Era così che tutte le fattorie venivano avvisate che quella sera si ballava, e tutti si preparavano per assistere all’evento danzante.

Il ballo popolare

I primi ad arrivare erano i gauchos o vaccai, che dal primo pomeriggio si recavano alla peluqueria di mio padre per farsi il servizio completo: barba e capelli. Questi gauchos erano uomini tosti che vivevano dalla mattina alla sera a contatto con la terra e con gli animali, tutto il giorno a cavallo sotto il sole, vento e pioggia: sbarbarli e tagliargli i capelli era un’impresa ardua!

Come atto preliminare mio padre li mandava con me alla pompa dell’acqua per lavarsi bene e insaponarsi la barba, così si ammorbidiva un po’ e la rasatura risultava più facile.

Era buffo vedere questi uomini rudi a torso nudo con la pelle bianca come maiali spellati, il viso marrone fino a metà fronte e poi bianco di nuovo, per il segno del cappello.

Dopo questa fase preliminare si passava al taglio con le forbici, poi alla rasatura con il rasoio per poi affrontare il taglio dei capelli che erano lisci e duri come aculei.

Finito il taglio si usava un gel che si chiamava Gomina, per tenerli buoni al loro posto, il quale poi, asciugandosi, si induriva come fosse cartone. Dopo la rasatura, invece, si spruzzava dell’alcol sul viso e si passava poi una pietra di allume; si usava anche il borotalco, per staccare i peli appiccicati alla pelle, lasciando viso e collo bianchissimi. Ma il servizio non era ancora finito, perché si facevano profumare per benino.

Questi profumi erano terribili, così come i loro nomi: Chiaro di luna, Cuoio di Russia, Aqua de Colonia, ecc… e da lì andavano al Boliche a bere, mangiavano qualcosa e, quando l’ora era giunta, soli o in gruppo si recavano alla balera.

Dopo il trattamento, con il miglior vestito della domenica e il collo della camicia inamidato duro come il legno, come si usava allora, erano pronti per fare quattro salti.

D’altro canto anche le ragazze erano vestite secondo la moda di quegli anni.

I vestiti con fantasie floreali erano i più allegri. La lunghezza era appena sopra al ginocchio, mentre le calze erano di seta con la riga della cucitura e le scarpe con suola e tacchi di sughero.

La parte superiore richiamava l’attenzione: le ampie scollature, le spalline e la vita, stretta come quella di una vespa, conferivano un aspetto bello ed elegante.

Per concludere, l’acconciatura prevedeva ricci per alcune , per altre capelli lisci con le punte rientrate e un ciuffo lungo fino a metà fronte.

L’orchestra suonava sopra un palco e a volte comprendeva più di dieci elementi. Si chiamava Orquesta Tipica e suonava tangos, milangas, valzer e foxtrot e altri balli. C’era sempre  un cantante ed era molto bello per noi bambini che ci radunavamo sotto il palco a guardarli.

Era molto divertente vederli ballare, perché quegli uomini abituati a cavalcare dalla mattina alla sera si muovevano goffamente o a saltelli e noi li imitavamo per scherzare facendoli arrabbiare.

Giocavamo anche a rincorrerci come pazzi fra i ballerini, poi uscivamo fuori dal tendone dov’erano state parcheggiate automobili, carri, sulky e tanti cavalli, per spiare le coppiette che cercavano un luogo appartato dove potersi amare lontano da occhi indiscreti.

Anche il mio fratellone, dopo aver lavorato come un animale, si lavava per benino, si vestiva a festa e, ricaricato, si profumava per andare felice a ballare sotto il tendone e ballava tutta la notte con le sue amiche.

Ricordo che una di quelle ragazze era un fiore, bellissima  e mio fratello era pazzo d’amore per lei, ma c’era una schiera di ragazzi che speravano di essere il fortunati prescelti. Lei era la regina di tutta la zona, tanti erano i pretendenti che lei non seppe mai scegliere e rimase zitella!

Comunque mio fratello le faceva una corte spietata e l’episodio che narrerò adesso successe in una di quelle occasioni in cui era andato a farle visita.

Non fummo noi a creare il fattaccio, che accadde guarda caso nello stesso luogo in cui si trovava la croce bianca, ma non credo neppure sia stato uno scherzo di qualcun altro, come non lo credeva neppure lui.

Era abitudine di mio fratello visitare la sua ragazza, quella che sperava un giorno diventasse sua moglie. Così ogni qualvolta che decideva di andare da lei si preparava fisicamente e spiritualmente qualche giorno prima.

In primo luogo curava la sua igiene personale, ripassava i propri sentimenti e poi, quando arrivava il momento, lavato, strigliato e profumato a dovere, vestito a puntino, caricava la sua fisarmonica di ottanta basi sopra la bicicletta rossa che lui adorava, montava con un salto e partiva lasciandosi alle spalle una nuvola di polvere e profumo, mentre io lo salutavo vedendolo scomparire poi dietro l’orizzonte.

Quella volta fece molto tardi: era ormai notte inoltrata, si era trattenuto suonando, ballando e bevendo a forse pensando alla sua amata; pedalando per la strada che correva parallela alla ferrovia da un lato, dando sull’aperta campagna dall’altro.

Così prima di arrivare a casa, a qualche centinaio di metri, c’era la croce bianca del barbone ucciso. Mio fratello raccontava sempre che, passando di lì, recitava qualche preghiera, scendeva dalla bici, faceva il segno della croce e poi rimontava e via.

Invece quella notte illuminata soltanto dalle stelle, scese, si fece il segno della croce e sentì che la ruota andò a cozzare contro qualcosa di molle, come se si trattasse di un cane; allora istintivamente mollò un calcio e senti in risposta una specie di grugnito e vide una testa mostruosa con gli occhi rossi infuocati che si girò verso di lui.

Un brivido di terrore gli percorse tutto il corpo, saltò sulla bici e partì, come se lo stesso diavolo lo stesse inseguendo, e in una manciata di secondi arrivò a casa, battendo tutti i record del momento.

Per qualche minuto non riuscì a spiccicare parola e dai suoni che emetteva svegliò tutta la famiglia. Quando finalmente riuscì ad articolare qualche parola disse di aver incontrato vicino alla croce un essere infernale.

Nostro padre era sempre incredulo quando gli argomenti vertevano sul religioso o il paranormale e non ci credeva mai neppure a cannonate, così calmò mio fratello, visibilmente alterato, il quale giurò, portandosi le dita a croce davanti alle labbra, dicendo che quello che aveva visto era Satana in persona.
    
Sono passati da allora tantissimi anni e mio fratello non c’è più; adesso capisco che quello che vide potrebbe essere stato un chupa cabras , perché la descrizione del fenomeno coincide con alcune dichiarazioni di certi testimoni attuali.

Comunque a quei tempi altri contadini avevano vissuto simili esperienze e sempre si sconfinava nel paranormale o in entità diaboliche inculcate dai preti nella testa della gente, perché quella era la cultura di allora nelle terre de la Pampa argentina.


Capitolo Quarto

Il cimitero e la pecora

 

Nel nostro piccolo villaggio, come in tanti altri, c’era una chiesetta con una campanella mezza stonata sul vertice, che il curato faceva suonare per chiamare quei quattro fedeli della messa domenicale.

Poi, alcuni passi più lontano, c’era pure il campo santo, come mia mamma chiamava il cimitero; poi qualche lapide spaccata e scurita dagli anni e dalle intemperie, una manciata di croci ormai senza nome né data e il perimetro circondato da un muretto bianco dipinto con la calce, qualche piantina di fiori qua e là e, sull’ingresso della strada un portone nero di ferro battuto, che il vecchio custode chiudeva con un grosso lucchetto e un catenaccio.

Quasi tutte le basse casette dei dintorni possedevano giardini, orti e tante piante di frutta per tutte le stagioni e noi bambini conoscevamo esattamente quali erano le migliori e come prenderle senza incorrere nell’ira dei proprietari. Era ovvio che la nostra attività si svolgeva sempre di notte.

In una delle tante incursioni notturne notammo un giovane, un certo Giovannino, che scendeva fischiettando per il sentiero che passava davanti al cimitero, la chiesetta e dopo alcune centinaia di passi fino a casa sua.

Notammo anche che il fatto si ripeteva sempre tutti i giorni, sempre dopo cena, più o meno alla stessa ora. Scoprimmo che il giovanotto era innamorato e quel continuo via vai erano le visite amorose che faceva alla sua fidanzatina che abitava un paio di chilometri più in là del campo santo.

Guardai Aurora e ci capimmo al volo, anche Macchia strizzò le orecchie come accennando ad un silente accordo; il soggetto era un candidato giusto per giocare un bello scherzo.

All’indomani nel nostro rifugio segreto, mangiando pasticcini fatti dalla mamma di Aurora, ordimmo un piano diabolico per far prendere un bello spavento al giovane innamorato. Anche Macchia era attento. Noi eravamo convinti che lui comprendesse tutto, infatti per noi era un nostro simile, non c’era nessuna differenza.

Sperammo che la luna fosse piena, così il buio non era totale e partimmo con il nostro piano. All’imbrunire vedemmo Giovannino recarsi felice dalla sua innamorata.

Avanzava per il sentiero saltellando e canticchiando una canzone -Paloma, casate commigo… - Anche lui per domare i suoi capelli usava una sorta di olio chiamato Glostora, una brillantina profumata e grazie al suo odore potevamo benissimo seguire i suoi passi.

Sapevamo ormai minuto più minuto meno l’ora del rientro dello spasimante e quando passava davanti al cimitero accelerava l’andatura: la paura dei defunti gli metteva le ali ai piedi, aveva sempre una sigaretta accesa e, fischiettando forte per farsi coraggio, si avviava verso casa e rientrando lo accoglievano il forte abbaiare dei suoi cani.

In casa mia c’era un unico orologio.

Era una vecchia sveglia di metallo con due campanelle; le lancette e i numeri erano fosforescenti, però il trascorrere del tempo ce lo indicava il sole, perché era sempre ferma e se qualcuno domandava l’ora, si rispondeva; più o meno dovrebbe essere…

Con le prime luci dell’alba mio padre era il primo ad alzarsi dal letto, mia mamma poi e, dopo l’igiene, correva in cucina per accendere il fuoco e preparava la colazione. Poi era il nostro turno e l’ultimo era il maggiore, mentre le due sorelle si preparavano con il grembiule bianco per andare a scuola.

Poi quando tutti si erano lavati e pettinati a dovere, bastava seguire il profumino delle cose buone che veniva dalla cucina, dove la tavola era imbandita, il latte caldo e il mate cotto fumanti, poi c’erano gallette, burro, miele e dolce di latte che era la mia delizia.

Quando la colazione era finita ognuno si recava a compiere le proprie faccende, tranne i miei genitori e mio fratello maggiore che prendevano il mate con la cannuccia.

Questa abitudine è un rito tradizionale che consiste in una piccola zucca essiccata che si usa come recipiente, si riempie con l’erba, si infila una cannuccia metallica con un filtro, si versa acqua calda e si succhia con tre o quattro tirate di liquido; si ridà poi a chi lo sta servendo in modo che lo riempia di nuovo continuando il giro.

In casa però si serviva il mate de gringo che era diverso, in quanto si aggiungeva un pizzico di caffè e un cucchiaino di zucchero.

Mio papà era un maestro nell’arte di preparare il mate  perché ognuno ci mette del suo cambiando la qualità a seconda dell’umore dell’autore.

Così fra un mate e l’altro si chiacchiera del più e del meno fino a quando non si è sazi e, dicendo grazie, si interrompe il giro; è ovvio che ogni tanto si svuota e si ricarica, perché diventa “lavato”, così si rimette nuova erba e si ricomincia. Infatti a noi bambini davano da bere proprio quando il mate era lavato, senza schiuma e molto dolce.

Poi, relativamente al pranzo, il momento giusto era quando il sole si trovava allo zenith e la cena al tramonto, così non si poteva sbagliare e tutti erano avvisati.

Quel giorno dopo aver cenato mi alzai chiedendo il permesso a mio padre, il quale acconsentì, ringraziai mia madre e sparii, come facevo regolarmente.

Fuori c’era ancora la luce e per un paio d’ore potevo tranquillamente occuparmi degli affari miei, perché loro sapevano che ero nei dintorni. Anche perché avevo il compito di controllare se tutti gli animali erano al loro posto, se avevano acqua a sufficienza e se i recinti erano chiusi: il pollaio, le conigliere, le due pecore e il vecchio montone, la cavalla con il suo cavallino.

Una volta svolto il mio dovere mi incontrai con Aurora e Macchia e demmo inizio all’operazione.

Prendemmo il vecchio montone, che chiamavamo Artemio, gli legammo una catena al collo e senza farci vedere ci avviammo verso il luogo prescelto nei pressi del cimitero e tutti e quattro ci acquattammo dietro ad un cespuglio vicinissimo al sentiero poco prima del cimitero e aspettammo che il giovane innamorato rientrasse.

Per strada, nei dintorni, non c’era anima viva; molti cenavano ancora e il manto buio della notte pian pianino coprì tutto. Solo il tenue chiarore della luna illuminava quel poco che bastava per vedere il contorno del paesaggio.

Ed ecco che da lontano arrivava il fischiettare di qualcuno, e fu Macchia a riconoscere subito Giovannino, perché mosse le orecchie e la coda e da subito anche noi, tranne Artemio che brucava tranquillo ignorando il suo ruolo in tutta la faccenda e che comunque avrebbe recitato a braccio.

Ecco il nostro pollo-disse Aurora dandomi uno strattone.
-Si, ho sentito-  risposi io.

Il fischiettio era sempre più vicino.

Passo dopo passo si avvicinava sempre di più, fino a quando Giovannino ci passò davanti accelerando il passo, e quando fra lui e noi c’erano circa una decina di metri, proprio davanti al cancello del cimitero…

-Adesso!- dissi, dando un morso feroce ad un orecchio di Artemio, che lanciò un disperato beeeeelato di dolore, mentre Aurora gli assestava una potente pedata nel didietro facendolo partire belando per il sentiero a grande velocità proprio dietro a Giovannino, mentre Macchia ululava com’era sua abitudine in quei casi.

Vedemmo la sagoma di Giovannino spiccare un salto come se avesse una molla sotto ai piedi e scappare a perdifiato correndo come un dannato e scomparire nell’oscurità e Artemio corrergli dietro trascinando la catena, entrambi nella stessa direzione in mezzo ad un rumore infernale…

- Povero Giovannino - disse mio padre il giorno seguente, a pranzo.

- Perché - chiese la mamma - cosa gli è successo? -

-Si dice in giro- fece lui- che ieri sera, passando davanti al campo santo, se la sia fatta sotto dalla paura. Pare che qualcosa lo abbia spaventato a morte… -

- Ma cosa dici - fece sorridendo la mamma - sarà stata una lepre -

- No, no - rispose papà- si parla del diavolo e di anima dannate che correvano trascinando delle catene tra pianti e lamenti disperati -

Allora la mamma, puntandomi il dito contro, mi disse - Attento tu che esci di notte: non ti allontanare troppo -

- Si mamma - risposi io e guardai Macchia che mi pareva sorridere con soddisfazione.

Per parecchi giorni Giovannino non uscì di notte e poi, quando faceva visita alla sua fidanzatina, non rientrava più passando per quel sentiero, ma girava attorno al paese allungando il percorso di qualche chilometro.

Quel luogo nei pressi del cimitero diventò stregato, perché neanche a farlo apposta accadde un altro fatto del tutto casuale, proprio lì, davanti alla porta di ferro del campo santo, in una notte senza luna.


 

 

-Continua nel prossimo numero-

 
di Alfredo Cellini Lupetto

 

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