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La Leggenda del Grande Inquisitore
(21/03/2019)

Documento senza titolo

Dal romanzo di Dostoevskij  “ I fratelli Karamazov


A ragione “La Leggenda del Grande inquisitore” può essere considerata come l’espressione massima del pensiero di Dostoevskij e a tal proposito per essere analizzata, va osservata da diverse angolazioni.

Una la più evidente è quella che riguarda l’aspetto politico-sociale, la struttura creata dal potere, impersonificata dall’Inquisitore, nel quale esso si muove e opera.

La seconda va a toccare l’aspetto morale e psicologico che evidenzia l’effetto che questo potere o status politico ha su l’umanità in generale e sul singolo in particolare.

Infine anche se più celato, ma che traspare dai diversi simboli incastonati nello scritto, è l’aspetto spirituale.

Per chi lo voglia cercare o ne intuisca la presenza esso rappresenta quel germe che è l’essenza di tutta l’arringa dell’Inquisitore.

Attraverso le frasi o singole parole “particolari” si possono cogliere quei semi capaci di far germogliare la percezione di un messaggio più profondo contenuto nella leggenda stessa.

Immediato appare il potere esercitato sull’umanità che viene sfacciatamente dichiarato dall’Inquisitore attraverso la sue molteplici affermazioni che compaiono nel testo.

Una realtaà’ cosi evidenziata e radicata che se ne può cogliere la fisionomia perfino oggi.

Quando ad esempio si parla della libertà e della convinzione che il popolo ha di averla, scorrendo i secoli,  si può ben porre un bel punto interrogativo.

Questo intendendo la libertà all’interno di un contesto sociale, e non come una realizzazione intima personale che invece investe la sfera spirituale.

Tengo a precisare che per spirito va intesa una frequenza elevatissima della materia, raggiunta la quale ha ovviamente ripercussione anche su ciò che noi definiamo sociale.

Ecco perciò che quando l’Inquisitore dichiara: “… l’hanno deposta ai nostri piedi. Questo siamo stati noi a ottenerlo…” E' chiaro che questa elevazione non è ancora stata raggiunta.

Sul piatto della bilancia ci sono poi due aspetti che secondo la concezione di questo potere, che assicura una parvenza di libertà, sono inconciliabili.

Sono la libertà, come la intende l’Inquisito, e il pane terreno.

Sostanzialmente l’umanità che ha bisogno di pane non può arrogarsi il diritto di essere libera, nel senso maiuscolo del termine.

Da qui la risposta che viene data all’Inquisito è: “… che libertà può mai esserci, se l’ubbidienza è comprata coi pani?

Siamo al binomio di fronte il quale l’umanità si scontra e confronta da sempre, o almeno da quando le esigenze  materiali  hanno via, via, prevalso su quelle spirituali senza più tentare di farle interagire e trovarne il giusto equilibrio.

Il divario è divenuto sempre più incolmabile e la scelta difficilissima, pertanto: avere o essere,  essere o apparire, libertà o fame? “Riduceteci piuttosto in schiavitu’ ma sfamateci.” Recita il testo.

 Si dovrebbe lavorare  quindi  per ottenere il giusto equilibrio fra quelli che sono i due aspetti fondamentali che caratterizzano la natura umana e cioè la sopravvivenza fisica, materiale e la sopravvivenza spirituale, senza la quale comunque la prima non potrebbe esistere.

Cosciente o meno che lo sia l’uomo riconosce esistere un’essenza, la presenza di un nucleo, di una sintesi dal quale tutto e’ nato e che permette a questo “tutto” di esistere.

Di contro proprio per il continuo accrescimento del sempre più complicato meccanismo di sopravvivenza materiale, si è accontentato di affrancarsi a una struttura morale entro la quale ha accettato certi parametri nei quali aliena ad altri (suoi simili) le proprie responsabilità. Appaga così in modo superficiale, e di comodo spesso, la sua sensibilità verso quell’essenza che comunque volente o nolente ineluttabilmente lo incoraggia ad andarle incontro.

Ma l’uomo cerca di inchinarsi a ciò che è già incontestabile, tanto incontestabile che tutti gli uomini ad un tempo sono disposti a venerarlo universalmente.”

In queste parole del testo si evince un annichilimento, un torpore , dove la forza di volontà è stata depauperata della sua potenzialità; così si delega ad altri la nostra emancipazione o addirittura ci si convince che neanche possa esistere. Nella migliore delle ipotesi lo scopo fondamentale è solo vivere meglio che si può con quello che ci viene dato.

L’accento su ciò che ci viene dato è perchè in questo modo s’intorpidisce quello che noi possiamo donare a noi stessi indipendentemente dalle influenze esteriori fasulle che oggi più che mai mirano a una globalizzazione delle menti proprio sotto l’egida di una morale che ha riscontri più politico-economici (pane terreno) che non veramente spirituali (pane celeste).

Il tutto a favore di uno stato di confort che per quanto se ne possa avere, a ragione, diritto è però sempre pilotato.

Senza una reale consapevolezza, la quale per emergere necessita di un azione concreta o intellettuale, siamo in balia di questo confort e non i veri artefici. E' come aspettare che piova piuttosto che andare ad attingere acqua al pozzo.

Ovviamente questa generalizzazione ha le sue eccezioni, che nello scritto possono essere riferite alle decine di migliaia di esseri cui fa riferimento l’Inquisitore.

Cos’è quindi che differenzia queste dalla gran massa?

Se portiamo l’esempio dell’acqua e del pozzo abbiamo due atteggiamenti diversi: il primo estremamente passivo nel quale ci si rimette a una provvidenziale pioggia che può o no cadere, o anche nel qual caso ci fosse qualcuno a fornire l’acqua esisterebbe sempre una dipendenza e mai un’azione personale diretta.

Nel secondo caso chi ha bisogno di acqua va al pozzo a prenderla.

Qui al contrario è proprio l’atto che emerge e che risolve.

Quindi un’attitudine all’attività che mette in movimento tutta una serie di cose le quali sviluppano e mettono in gioco le possibilità di chi agisce: organizzarsi e procurarsi un recipiente, sapere qual’è la strada migliore per raggiungere il pozzo e infine attingere l’acqua con la soddisfazione di avere raggiunto lo scopo, grazie alla propria intraprendenza.

Un detto recita così: “ Chi vuole vada, chi non vuole mandi.”

Da questo semplice esempio si evince come si differenzino i due aspetti, quello della massa da una parte, sostenuto a chiare note dall’Inquisitore e quello delle poche decine di migliaia di uomini che seguono l’Inquisito.  

L’Inquisitore si ostina a sostenere che l’umanità è debole e vile e che la sua ricerca di tranquillità a tutti i costi la porta a credere e seguire qualsiasi cosa le venga dato in pasto.

A riguardo fa riferimento a tre forze, come lui stesso le definisce, importanti e necessarie per mantenere viva questa esigenza. Parla infatti di: miracolo, mistero e autorità.

Di contro incalzando l’Inquisito si riferisce a lui dicendo: “Avevi sete di fede libera, non fondata sul prodigio.”

Al termine fede si attribuisce il significato di adesione incondizionata a un fatto o una idea, e sembrerebbe un contro senso che l’Inquisito parli di fede quando ha rigettato le tre forze di cui sopra (miracolo, mistero, autorità).

Nonostante questo a detta dell’Iquisitore, l’Inquisito parla di libera fede avulsa da qualsiasi servilismo. Dobbiamo dedurre perciò che chi parla di fede libera è andato a prendersi l’acqua al pozzo?

Se è così vuol dire che la fede si può acquisire e nasce solo dalle proprie esperienze, dalle azioni che si compiono per produrle.

Ogni azione ha come matrice il fare che a sua volta produce un lavoro, e di conseguenza un attrito che genera calore, sia che i mezzi per ottenerlo siano materiali, tangibili al tatto , sia che siano il prodotto dell’ingegno, dell’intelletto, dell’anima o dello spirito.

Riconoscendo questa filiera il prodigio cui si accenna modifica il significato di fenomeno che travalica l’ordine naturale delle cose, e quindi miracoloso, ma diventa una realtà che trova la sua espressione osservabile proprio grazie al fare e operare, grazie all’essere attivi e produrre quel calore che è sempre e comunque portatore di vita.

Parlando del calore e del “Fuoco” che lo genera, approdiamo all’aspetto spirituale di quest’opera. Si accenna infatti a un fuoco proveniente dal cielo.

L’Inquisito non parla mai direttamente ma è l’Iiquisitore che condannando le sue idee le rivela ampiamente.

E’ chiaro, perciò, che il cielo a cui farebbe riferimento l’Inquisito non è quello che si puo’ ammirare sopra le nostre teste, bensì un cielo celato molto più vicino all’essere umano di quanto lui pensi.

Ecco perché incoraggia sempre ad agire, a creare attrito. Perchè quel fuoco è celato in lui.

Il nutrimento cui allude l’Inquisito è un nutrimento spirituale, è il “Pane celeste” che si ottiene non come il pane terreno, impastando lievito e farina bensì mescolando e rimescolando quel “fuoco dal cielo”.

E’ un fuoco che veramente rende liberi, è quel germe inconsueto, enigmatico, impreciso ( come viene definito nell’opera) che supera le forze degli uomini ma solo perché essi non sono mai stati educati a riconoscerle e a svelarne i doni potenziali in esse contenuti.

Nonostante ciò, questo “Fuoco” non è dissimile dallo spirito intelligente e terribile, autodistruttore e dissacratore dell’essere che parlò all’Inquisito nel “deserto” e lo tentò.

Questo fuoco, questo “Pane celeste” può essere la porpora di Cesare, oppure la libertà, o anche il pane terreno. Può essere l’Inquisitore o l’Inquisito… dipende da come lo si consuma.

 Come fuoco deve però comunque ardere in qualsiasi modo, impossibile il contrario, ecco perciò che il prigioniero si allontana: “E lo lascia andare per le vie oscure della città".

di Massimo Antonucci

 
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